Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea e il premier Mario Draghi (Ansa)

E la veduta lunga?

Il Recovery chiama in causa non solo la politica ma l'intera classe dirigente

Guido Gentili

Come hanno fatto notare Gentiloni e Visco, per realizzare le riforme e sfruttare l'occasione che arriva dall'Europa e dal Pnrr occorre ritrovare il senso di una missione nazionale, che ancora non si vede. Cos’è che non funziona 

Ma, in fondo in fondo, siamo proprio sicuri che l’Italia disponga di una classe dirigente, politica e non solo, vogliosa e capace di traghettare una volta per tutte il paese fuori dalle secche della bassa crescita in cui staziona da un quarto di secolo?

 

Va bene che questo è più che mai il momento di “pensare positivo”. A Palazzo Chigi governa, in assetto da unità nazionale cercato dal presidente Sergio Mattarella, il magnifico pragmatico Mario Draghi. Il Piano nazionale di riforma e resilienza (Pnrr) è stato approvato da un’Europa amica e generosa. Il mondo ci guarda benevolo (e la Nazionale di calcio gareggia a Wembley per la vittoria del campionato europeo). Qui in casa è tutto un coro quotidiano del tipo “È la nostra grande, unica e irrinunciabile occasione, bisogna spendere bene le centinaia di miliardi del Pnrr”.

 

Però ci sono anche pensieri e parole di segno diverso, passati lo stesso giorno pressoché inosservati e tuttavia di peso. Come quelli del commissario europeo Paolo Gentiloni, politico che ha fatto della prudenza uno stile personale: “Quello che serve e che ancora manca è il senso di una missione nazionale. Se diciamo che il Pnrr è senza precedenti, che un terzo delle risorse europee arrivano all’Italia che è il paese che più di tutti deve uscire dalla bassa crescita, allora dobbiamo avere l’idea che siamo all’inizio di una vera e propria missione nazionale nella quale il Parlamento, le classi dirigenti, il mondo del lavoro, la cultura, tutti dovrebbero sentirsi mobilitati. Questa dimensione della sfida che non riguarda solo il governo – ha concluso l’ex presidente del Consiglio – non è ancora del tutto presente” (Recovery Summit, Lisbona, 30 giugno).

 

Mica poco, se manca ancora il senso della missione nazionale. E non basta. Da Gentiloni al governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco il passo è stato brevissimo e di fatto convergente. “Non sono sicuro che l’Italia avrà le capacità a livello politico di completare le riforme. Restiamo in un contesto in cui vale un titolo che ho usato negli anni 90: eccesso di debito e carenza di stato, una carenza di fondo. Non possiamo – ha detto Visco – continuare a vivere con livelli di debito che non hanno alcuna traiettoria discendente. Non possiamo finanziare in deficit i tagli d’imposta di natura strutturale, come molti pensano si possa fare” (Fondazione Astrid, Roma, 30 giugno).

 

La doppia messa in guardia Gentiloni-Visco suona opportuna come sveglia dal torpore generale dove la “veduta corta” (leggasi: strategia per conquistare voti e consensi) caratteristica della classe politica ha incrociato, a motivo della pandemia, l’esplosione di deficit e debito pubblici, inevitabile e per molti versi necessaria. E certo l’unità nazionale è più facile da realizzare con gli scostamenti di bilancio, facendo più debito, che non cercando di abbassarlo. Se ne esce con più crescita, ripete giustamente Draghi, ma una ripresa forte e stabile presuppone di mettere mano alle riforme, contenendo il debito. Il che significa mettere in campo la “veduta lunga” con una missione, appunto, che chiama in causa l’intera classe dirigente: le istituzioni, i partiti, i sindacati e le imprese solo per cominciare. Perché non bastano i richiami (scontati, quasi un riflesso condizionato) ai patti sociali tra i produttori e la concertazione a Palazzo Chigi a dare il senso di un impegno che deve innervare l’intera società civile e coinvolgere le persone. L’alternativa è proprio il pericolo paventato da Visco: rimanere fermi alla metà degli anni Novanta, quando appunto iniziò la stagione della bassa crescita.

 

Di senso della missione ne sapeva qualcosa un “produttore” per eccellenza come Gianni Agnelli. Nel giugno 1996, in occasione dei cinquant’anni della Repubblica e dell’inizio della Ricostruzione, scrisse un articolo per Il Mondo. “Sembra mancare quella unità di intenti, quella voglia di fare, quella capacità di mobilitare le energie di tutti, in sostanza quel diffuso ottimismo proprio di una comunità che s’impegna per ricostruire e raggiungere obiettivi vitali per il proprio avvenire. È su questo che occorre un impegno di serietà e credibilità da parte di tutta la classe dirigente (…). Oggi bisogna insomma per prima cosa – concluse il presidente della Fiat – recuperare quelle basi morali e civili che consentono la diffusione nel paese di quella tensione positiva che permette di superare gli ostacoli e spinge il paese a rimettersi su un sentiero di sviluppo nell’equità e nella democrazia”. È trascorso un altro quarto di secolo di bassa crescita e abbiamo appena festeggiato i settantacinque anni della Repubblica. Il richiamo di Visco e Gentiloni tutto è meno che campato in aria.