Lo schiacciasassi di Draghi

Claudio Cerasa

Pragmatismo, europeismo, decisionismo e anti dogmatismo. La riforma della giustizia (senza bizze grilline) è un manifesto del metodo Draghi e proietta l’Italia verso una stagione di ottimismo

Quello che conta è la sostanza e anche alla luce del Consiglio dei ministri di ieri la sostanza parla chiaro: volevano una ruspa, hanno trovato uno schiacciasassi. Alcuni dettagli presenti all’interno della riforma della giustizia penale potranno anche lasciare insoddisfatti ma la ciccia degli emendamenti presentati ieri in Cdm dal ministro Cartabia mostra una rivoluzione copernicana che consiste in una svolta impossibile da non notare: lo stesso Parlamento che aveva votato a maggioranza semplice l’oscena abolizione della prescrizione oggi si prepara non solo a correggere quella legge ma anche a introdurre qualche elemento di garanzia in più per la tutela dello stato di diritto (vedi l’estensione dei riti alternativi).

 

La presenza di un Draghi modello schiacciasassi non è un tema che riguarda solo l’impostazione scelta dal premier sul terreno della giustizia (le mediazioni sono importanti, ma le decisioni lo sono ancora di più e pazienza se i grillini faranno i capricci) ma è un tema che riguarda anche il percorso imboccato in questi mesi dal presidente del Consiglio. E per quanto si possa essere amanti dei dettagli, la verità è che i primi quattro mesi di Draghi a Palazzo Chigi sono stati caratterizzati da un numero non irrilevante di successi politici. La campagna vaccinale procede bene, al ritmo del resto d’Europa. La scelta di anticipare le riaperture rispetto ad altri paesi europei non ha avuto gli effetti pronosticati da molti virologi pessimisti. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha ricevuto i massimi voti dai membri della Commissione europea.

  

Le prime riforme collegate al Pnrr sono state portate avanti senza ritardo sui tempi (entro maggio andava approvato il decreto legge contenente gli interventi urgenti di semplificazione, ed è stato fatto; entro giugno andava approvato il decreto relativo alle norme per le nuove assunzioni nelle pubbliche amministrazioni, ed è stato fatto; entro luglio andava presentata la legge delega sulla riforma penale, ed è stato fatto; ancora entro luglio dovrà essere presentato in Parlamento il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza e dovrà essere presentata la legge delega per la riforma dell’Irpef, e anche qui sui tempi ci siamo).

 

Lo sblocco dei licenziamenti è stato confermato, seppure a tappe, e con il benestare dei sindacati (e le rivolte sociali?). E nei primi quattro mesi dell’èra Draghi (dedicato a quelli che il governo Draghi avrebbe ucciso la politica) i partiti sono stati costretti a ripensare a se stessi con una velocità mai vista negli ultimi anni: il Pd ha cambiato segretario, la Lega ha cambiato linea, FI ha svoltato per la federazione, FdI è alla ricerca di una nuova identità, il M5s è alla ricerca di un nuovo leader.

 

Draghi è riuscito a raggiungere i risultati che desiderava attraverso un mix di pragmatismo (depoliticizzando i conflitti e trasformando le scelte politiche in scelte di buonsenso), di europeismo (il sovranismo europeista di Draghi è l’opposto del sovranismo nazionalista di Salvini e Meloni), di antidogmatismo (cosa c’è di meglio che avere un gran sostenitore del mercato per governare un afflusso nelle casse dello stato di 200 e rotti miliardi di fondi europei) e di decisionismo (concertare significa decidere dopo aver ascoltato tutti non lavorare per non scontentare nessuno). E il suo essere percepito come un antipopulista oggi non è il frutto di una strategia (Draghi non direbbe mai di essere un antipopulista) ma è il frutto di un’operazione quasi naturale che ha permesso di trasformare il principio di realtà (e, se vogliamo, anche il vincolo esterno) in un valore meno negoziabile rispetto a qualche anno fa.

 

È possibile che la riforma della giustizia (ieri approvata all'unanimità in cdm) possa essere il primo passo dell’ex governatore della Bce nella stagione delle maggioranze variabili (ad agosto inizia il semestre bianco e un po’ si ballerà). Ma è difficile dopo questi quattro mesi non augurarsi che la politica metta in campo il suo whatever it takes per far sì che il destino dell’agenda Draghi sia ancorato a qualcosa di più solido e di più duraturo del semplice futuro di questa legislatura. Per dirla con due numeri: meglio un Draghi ancora per un anno e mezzo o un Draghi ancora per sette anni e mezzo? Risposta facile, no?

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.