Lezioni dall'Europeo oltre l'Italia: un calcio al moralismo chiodato
I cervelli calcistici “in fuga”, gli oriundi, il portiere strapagato, la libertà di inginocchiarsi: tante le storie che insegnano a saper distinguere tra vita pubblica e vita privata senza farsi travolgere dalla cultura del sospetto
L’Europeo che si è appena concluso verrà naturalmente ricordato per ragioni sportive, verrà ovviamente ricordato per quel che è successo ieri sera a Wembley, verrà chiaramente ricordato per quello che ha combinato la nostra Nazionale e verrà certamente ricordato per il modo in cui l’universo del pallone ci ha più o meno dolcemente e più o meno responsabilmente accompagnato nella stagione della post emergenza pandemica (ammassati in quel modo allo stadio: paura!). L’Europeo che si è appena concluso verrà ricordato naturalmente per i risultati ottenuti dalla Nazionale di Roberto Mancini (grazie) ma meriterebbe di essere ricordato anche per alcune ragioni extra sportive che hanno permesso ai campionati europei di diventare il simbolo di un mondo in grado di vivere senza essere ostaggio del moralismo chiodato.
Abbiamo già raccontato della bellezza di aver visto un attaccante a un passo da un processo (Karim Benzema) giudicato per quello che fa in campo e non per quello che fa fuori dal campo. Abbiamo già raccontato della bellezza di aver visto un altro attaccante (Cristiano Ronaldo) sommerso da accuse non provate (stupro) giudicato anche lui per quello che fa in campo e non per quello che avrebbe fatto fuori dal campo. Abbiamo già raccontato della bellezza di aver visto un allenatore coinvolto in un processo per bancarotta fraudolenta (Roberto Mancini, assolto in primo grado, in attesa ora dell’appello) giudicato per quello che fa in panchina senza essere squalificato a vita dai talebani della presunzione di colpevolezza (fosse stato un politico, il giorno prima della finale di Wembley i giornali avrebbero pubblicato, accanto alla formazione dell’Italia, anche verbali inediti della polizia giudiziaria, con qualche intervista d’appoggio al signor Franco di turno). Abbiamo già raccontato tutto questo. Ma nella storia degli Europei ci sono altre piccole lezioni di anti moralismo che meriterebbero di essere ricordate anche dopo l’Europeo. Vale per esempio per l’avidissimo Luigi Donnarumma, bollato da Matteo Salvini come un traditore della patria, della patria milanista, per non aver avuto il coraggio di rinunciare a quattro milioni di euro all’anno di ingaggio, vergogna!, e che però chissà se sarebbe diventato così grande se non avesse sentito il dovere di dimostrare in ogni minuto del suo Europeo il valore assegnatogli dalla sua nuova squadra (Donnarumma è passato quest’anno dal Milan al Paris Saint-Germain: ingaggio da circa 10 milioni di euro all’anno.
Vale, se vogliamo, anche per i molti cervelli calcistici in fuga, da Florenzi a Verratti passando per Jorginho ed Emerson, che hanno dimostrato che lasciare l’Italia calcistica (Florenzi e Verratti sono arrivati al Psg dalla Roma e dal Pescara, Emerson e Jorginho sono arrivati al Chelsea partendo dalla Roma e dal Napoli) non è un tradimento culturale (ah quanti danni fa l’avidità!) ma è un modo come un altro per acquisire esperienze capaci di offrire un valore aggiunto anche alla propria casa madre (i cervelli sono sempre in circolazione, mai in fuga).
Vale, se vogliamo, anche per la storia degli oriundi, per i Jorginho e per gli Emerson, che, nonostante l’odio manifestato contro di loro in passato dai Salvini e dalle Meloni, hanno offerto una lezione mica male su come si possa essere veri cittadini italiani senza essere nati necessariamente nel nostro paese (vergogna!). Vale, se vogliamo, anche per il rapporto speciale che si è creato in questo Europeo tra l’allenatore della Spagna, Luis Enrique, e uno dei suoi attaccanti, Alvaro Morata, che il ct spagnolo ha scelto di difendere a spada tratta contro i bulletti reali e digitali che lo hanno ricoperto di insulti durante l’Europeo, arrivando a dire, subito dopo una prestazione non eccellente di Morata contro la Svezia, che la formazione successiva della Spagna, così ha detto Luis Enrique, sarebbe stata formata da Morata e poi da altri dieci giocatori. Vale per tutto questo ma vale, se ci pensiamo, anche per l’annosa questione dell’inginocchiarsi o no all’inizio delle partite. E nonostante le molte strumentalizzazioni arrivate da una parte e dall’altra del terreno di gioco alla fine tutti hanno capito (forse anche Enrico Letta) che non basta non inginocchiarsi per essere considerati razzisti e che essere liberi di fare un gesto dal forte valore simbolico è mille volte più importante che essere costretti a farlo (alla fine, poi, anche qui si è capito bene che i giocatori vanno giudicati per quello che fanno nei novanta minuti, non per quello che fanno un secondo prima e un secondo dopo). L’essere giudicati non per quel che si è ma per quel che si fa è una lezione che in fondo riguarda anche i figli d’arte, come Federico Chiesa (figlio di Enrico, ex attaccante di Sampdoria e Fiorentina), come Daley Blind (difensore olandese, figlio di Danny Blind, per anni colonna dell’Ajax), come Kasper Schmeichel (portiere della Danimarca, figlio di Peter Schmeichel, anch’egli in passato portiere della Nazionale danese), che in altri ambiti sarebbero stati osservati con sospetto, maledetti raccomandati, e che in ambito calcistico sono invece osservati con rispetto e ammirazione, più con lo sguardo di chi osserva predestinati che orrendi privilegiati. Gli esempi positivi offerti in questi mesi dal mondo del calcio valgono per tutto questo, ma valgono anche per molto altro (non c’entra con il moralismo, certo, ma che meraviglia vedere nazioni che si trovano fuori dall’Unione europea, come l’Inghilterra, come la Turchia, come il Galles, come la Svizzera, fare di tutto per essere considerati i più forti d’Europa). E d’altronde, a proposito di moralismo, per il mondo del calcio, con grande dolore di Marco Travaglio, l’essere giudicati per ciò che si fa senza essere valutati per ciò di cui si è accusati è una prerogativa che persiste da molto tempo (Paolo Rossi, nel 1982, vinse i Mondiali, nonostante le accuse legate al calcioscommesse, e Marcello Lippi, nel 2006 vinse i Mondiali nonostante il fango di Calciopoli) e se ci si riflette un istante, per tornare rapidamente ai campionati nazionali, l’essere giudicati esclusivamente per ciò che si fa, per i risultati, è una concessione che viene spesso riservata ai presidenti delle squadre di calcio di fronte ai quali l’approccio dei tifosi è molto diverso da quello che gli elettori hanno quando si tratta di giudicare in economia il destino dei campioni nazionali (le invasioni dei capitalisti stranieri, nel calcio, non vengono viste con sospetto, vengono viste con speranza: basta che paghino, che ottengano risultati, e il resto chissenefrega).
Gli Europei verranno ricordati come un primo passo dell’Europa verso la nuova normalità post pandemica (e anche convivere nel modo meno isterico possibile con i contagi e con le nuove ondate, a condizione che le campagne di vaccinazione vadano avanti, fa parte di questa nuova normalità). Ma se l’approccio non solo calcistico osservato durante gli Europei divenisse un modello da seguire anche in ambiti non sportivi, la nuova normalità post pandemica potrebbe arricchirsi di una novità niente male: saper distinguere tra vita pubblica e vita privata senza farsi travolgere dalla cultura del sospetto, senza farsi rimbambire dalle fesserie anticapitalistiche, provando a far diventare l’Europa nonostante l’Uefa un mercato sempre più attrattivo e giudicando finalmente i talenti per quello che fanno e non per quello che sono. Anche per questo, grazie Europa. E grazie Azzurri.