la difficile arte della successione
Troppi padri da scavalcare. Leader si nasce non si diventa
Non è un problema che riguarda solo la sinistra. L’eredità di Togliatti, e poi le turbolente vicende di Silvio Berlusconi con Fini e Alfano. L’affaire Grillo-Conte è tutta storia già vista
Era stata annunciata come la giornata decisiva, quella della rottura finale, e quindi della rinascita. Ma al termine del consueto, prolisso, professorale monologo, pronunciato dal palco allestito al Tempio di Adriano, a due passi da Palazzo Chigi, era apparso subito chiaro a tutti che Giuseppe Conte non aveva deciso un bel niente. Aveva semplicemente ributtato la palla nell’altra metà del campo, da dove Beppe Grillo, peraltro, lo aveva già ampiamente insolentito.
“Conte deve studiare e imparare cos’è il Movimento”. “Gli ho detto che io sono un visionario, lui non lo è”. “E’ lui ad aver bisogno di me, non io di lui”. Così, a quanto riportato dalle agenzie, aveva detto il fondatore ai parlamentari del Movimento 5 stelle, soltanto qualche giorno prima.
“Spetta a lui decidere – gli rispondeva dal palco l’aspirante rifondatore – se essere il genitore generoso che lascia crescere la sua creatura in autonomia o il genitore padrone che ne contrasta l’emancipazione”.
A Grillo dunque la scelta: genitore 1 o genitore 2.
Era però necessaria una certa sospensione dell’incredulità per prendere sul serio l’alternativa avanzata da Conte nel corso della sua lunga, solenne e inconcludente conferenza stampa (proprio come quelle dei tempi migliori).
Era necessaria una certa sospensione dell’incredulità e anche una certa ignoranza della politica, prima ancora che della storia e del carattere particolarissimo del Movimento 5 stelle (giusto quella che Grillo gli aveva rinfacciato subito). Per non parlare della storia e del carattere di Beppe Grillo, ovviamente.
La risposta del Garante – quello dei Cinque stelle, s’intende, non quello della privacy – era un chiaro e netto richiamo alle origini del movimento, fondato in una giornata chiamata non per nulla Vaffa Day. Per dirla con le precise parole messe nero su bianco in un post sul blog il 29 giugno: “Conte può creare l’illusione collettiva (e momentanea) di aver risolto il problema elettorale, ma non è il consenso elettorale il nostro vero problema. Il consenso è solo l’effetto delle vere cause, l’immagine che si proietta sullo specchio. E invece vanno affrontate le cause per risolvere l’effetto ossia i problemi politici (idee, progetti, visione) e i problemi organizzativi (merito, competenza, valori e rimanere movimento decentralizzato, ma efficiente). E Conte, mi dispiace, non potrà risolverli perché non ha né visione politica, né capacità manageriali. Non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione. Io questo l’ho capito, e spero che possiate capirlo anche voi”.
Sul fatto che, prima di capirlo lui, ce lo abbia rifilato come capo del governo a tutti noi, non mi soffermo perché mi porterebbe fuori strada, ma soprattutto perché spezzerebbe il ritmo di un dialogo a distanza di struggente bellezza, che tocca l’apice con l’asciutta replica di Conte, lasciata prontamente filtrare alle agenzie: “Ha scelto di fare il padre padrone”.
Povero caro.
Grillo aveva fatto la sua scelta: genitore 2. Altro che garante. Altro che “genitore generoso che lascia crescere la sua creatura in autonomia”.
Conte, ancora una volta, aveva fatto male i conti. Aveva sfidato il comico a non fossilizzarsi nella parte del “padre padrone”, pensando forse davvero che si sarebbe potuto limitare a quella del padre – o del “papà”, come avrebbe poi detto Grillo in un ulteriore videomessaggio di questa straziante telenovela – ma di sicuro non immaginando che Luigi Di Maio avrebbe riservato per sé quella del padrino. E che gli si sarebbe presentato davanti accompagnato dall’ex rivale Roberto Fico, per fargli un’offerta che non poteva rifiutare. Un’offerta di mediazione, si capisce.
Quello che l’avvocato invece non aveva capito, e che il comico consumato avrebbe potuto insegnargli, è che per le scissioni, e per i nuovi partiti in generale, vale quello che vale per le battute: se funzionano – quando funzionano – funzionano subito. Se ti devi fermare a spiegarla, desisti. Nessuno ride alla spiegazione di una battuta. Nessuno aderisce alla ripicca di un partito politico.
Chiedere per conferma a Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi, Francesco Rutelli e a tutti gli altri numerosi protagonisti di scissioni tristi e tardive – tristi perché tardive, ma spesso anche tardive perché tristi – di cui è ricchissima la vicenda storica della sinistra, ma non è avara nemmeno quella della destra italiana. Come mostra emblematicamente la brevissima parabola di Futuro e libertà, il partito di Gianfranco Fini, nato dalla più tardiva di tutte le scissioni mai concepite, e finito nel modo più triste. Praticamente azzerato al primo impatto con le elezioni.
Il fatto è che di genitori generosi, che lasciano crescere la propria creatura in autonomia, la politica italiana, e forse mondiale, ne ha visti pochini.
Alle origini della Repubblica, va detto, il problema non era poi così pressante. Nel Partito comunista, per esempio, a onta della rituale citazione gramsciana secondo cui il primo compito di un dirigente consisterebbe nel preparare la successione, quella del segretario era di fatto una carica vitalizia, o quasi.
Palmiro Togliatti morì da capo del Pci, colpito da un’emorragia cerebrale mentre si trovava a Jalta per alcuni incontri con i vertici del potere sovietico. Luigi Longo dovette essere affiancato e poi sostituito da Enrico Berlinguer solo dopo essere stato colpito da un ictus. Berlinguer morì anche lui da segretario, anche lui colpito da un’emorragia cerebrale.
Le cose cominciano a cambiare, appena un poco, con il suo successore, Alessandro Natta. Dopo la sua elezione, nel 1984, a stringere un patto generazionale per scalzare la vecchia guardia, quello che sarà ricordato come il “patto del garage”, sono i giovani Massimo D’Alema e Achille Occhetto (che peraltro, allora, ha quasi cinquant’anni, ma tutto è relativo).
L’occasione sarà di nuovo un problema di salute del segretario. Un infarto, questa volta. Dopo aver lasciato l’ospedale, nel giugno del 1988, Natta scriverà due lettere di dimissioni. Una pubblica e formale. Dell’altra rivelerà l’esistenza solo diversi anni dopo, e proprio ai biografi di D’Alema (Giovanni Fasanella e Daniele Martini), cioè il principale responsabile, insieme con Occhetto, di quel “tramestio pilotato” che Natta denuncia come offensivo e sleale, oltre che innecessario, tanto più grave perché svoltosi persino davanti alla sua stanza d’ospedale.
Qui insomma sono semmai i figli che divorano il padre, o quanto meno che lo azzannano alle caviglie. Qualcosa di inimmaginabile fino a pochi anni prima, pensando alla tradizionale santificazione del segretario, con fenomeni di autentica devozione popolare come quelli che si manifestavano per i segretari del Pci, particolarmente evidenti in occasione dei funerali di Togliatti prima e di Berlinguer poi.
Non era questa, peraltro, un’esclusiva dei comunisti. Ai funerali di Giorgio Almirante, lo storico leader del Movimento sociale, morto il 22 maggio 1988, si assiste persino al miracolo della levitazione della salma.
“Per tre giorni e tre notti – racconterà la vedova, Donna Assunta – la gente venne a inginocchiarsi, lo accarezzava, lo baciava. A un certo punto abbiamo visto il suo corpo che man mano si sollevava. Abbiamo chiuso le porte per vedere cosa stava succedendo e abbiamo scoperto che la salma levitava perché la gente inginocchiandosi infilava la tessera del partito nella bara. Ce n’erano a centinaia sotto il suo corpo, ne furono raccolti tre sacchi”.
Quello che colpisce, oltre alla coincidenza temporale con il malore di Natta, è il rapporto tra il corpo, la salute, e la legittimazione del capo. Sarà un caso, ma il primo parziale, semiclandestino eppure clamoroso atto di disobbedienza, in quel partito consegnato da Almirante al successore designato, Gianfranco Fini, quasi in eredità, giusto pochi mesi prima di morire (dicembre 1987), partirà proprio di lì, dalle sue presunte condizioni di salute, nonostante sia ormai il 2005, e il Msi si sia trasformato già da vent’anni in Alleanza nazionale. All’origine dello scandalo sta la discussione tra Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa e Altero Matteoli, carpita da un giornalista del Tempo in un bar di Roma, “La Caffetteria”, in Piazza di Pietra (proprio lì dove sorge il Tempio di Adriano, dietro Palazzo Chigi, perché la pigrizia vince anche sulla prudenza e la toponomastica della politica italiana, comprese le sue più segrete macchinazioni, si svolge tutta in un raggio di trenta metri dai palazzi istituzionali).
“E’ malato, non lo vedete che è dimagrito, gli tremano le mani. Non so di che tipo di malattia si tratti, ma o guarisce o sono guai”, dice La Russa. “La vera questione – osserva Matteoli – è chiedersi chi è Fini oggi. Dobbiamo rispondere a questa domanda”. E poi aggiunge: “Dobbiamo andare da lui prima di agosto, altrimenti parte per le ferie e scompare. Dobbiamo andare e dirgli: ‘Gianfranco, svegliati!’. Che ne so, se serve, prendiamolo a schiaffi, ma scuotiamolo!”.
Una maschia determinazione forse in linea con un’antica tradizione, questa degli aspiranti schiaffeggiatori, comunque in netto contrasto con il tono della lettera con cui i tre, dopo aver letto le proprie parole sul giornale dell’indomani, rimetteranno al leader i propri incarichi.
“Caro Gianfranco, è inutile dirti quanto ci dispiaccia la pubblicazione dell’articolo”, esordiscono. “Ci preme solo sinceramente sottolinearti che nel corso di tutto il colloquio durato più di 30 minuti e in qualche modo spiato e scorrettamente estrapolato da un giornalista, non vi è stato un solo minuto in cui è venuto meno il nostro reale intento e cioè il desiderio di trovare il miglior modo possibile per aiutarti nella difficile opera di ripartenza di Alleanza Nazionale”.
Niente schiaffi, insomma, ma opere di bene.
Alle sberle, metaforicamente, s’intende, avrebbe pensato di lì a qualche anno Silvio Berlusconi. Quando il delfino di Almirante, in un’altra di quelle meravigliose carambole che solo la politica italiana sa regalare a chi abbia la pazienza di seguirne le impossibili traiettorie, diventerà prima, come presidente della Camera, modello di cultura istituzionale e difesa dei valori repubblicani, quindi poco meno di un potenziale leader della sinistra, ruolo in cui qualche sciagurato avrà persino il coraggio di farlo testare nei sondaggi (oggi lo si sarebbe detto senza dubbio “un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste”).
E’ lo scontro che tutti ricordano per quella domanda retorica – “Che fai, mi cacci?” – con cui Fini si rivolgerà a Berlusconi in uno dei momenti di massima tensione.
Oltre che di se stesso, il leader della destra post-missina cadrà vittima di una feroce campagna di stampa sulla complicata vicenda di una casa a Montecarlo lasciata in eredità al partito, che s’intreccerà alle sue vicende coniugali (al centro c’è il fratello della nuova compagna), in un inestricabile miscuglio di gelosie, sentimenti e risentimentimenti. Campagna condotta peraltro dal Giornale diretto in quel momento da Vittorio Feltri, oggi capolista a Milano proprio per Fratelli d’Italia (e se questo significhi che il partito di Giorgia Meloni è davvero cambiato, e non porta rancore, o invece che è sempre lo stesso, e conosce la gratitudine, o semplicemente che ormai in politica niente significa più niente, al di là della celebrità e dei like, ciascuno può stabilirlo da sé).
Dettaglio curioso, una delle principali preoccupazioni dei tre congiurati del bar “La Caffetteria” era proprio il progetto di un partito unico del centrodestra con Berlusconi a capo – c’è sempre una scissione o un partito unico in vista, nella politica italiana, nei ritagli di tempo lasciati dal dibattito su leggi elettorali e riforme istituzionali – che faceva dire a La Russa: “Non possiamo far fare le trattative a Gianfranco. Non è capace. Quelli gli telefonano, gli dicono che vogliono togliere quello e mettere quell’altro e lui dice sempre di sì”.
Alla fine lo seguiranno anche nel partito unico, circa due anni dopo, ma quando poi sarà Fini a pentirsene, e a promuovere la scissione, resteranno tutti con Berlusconi, nel Popolo della libertà. Per un breve momento, in compenso, si parlerà di primarie per la leadership anche lì. Poi il Cavaliere farà come tante volte ha fatto anche Grillo – mettete la votazione online per l’ultimo direttorio, o come diavolo si chiamava, al posto dei gazebo – e insomma sconvocherà la festa, ritirerà gli inviti e dirà che ci ha ripensato. Deciderà persino di ricambiare simbolo alla ditta. Caso rarissimo in politica, il nuovo partito riprenderà nome e simbolo del vecchio: si torna a Forza Italia. E i congiurati antifiniani del 2005 si divideranno una volta per tutte: Gasparri e Matteoli in Forza Italia, La Russa con Giorgia Meloni, principale sostenitrice delle primarie del Pdl, cui si era già candidata, che alla notizia della sconvocazione deciderà di non rientrare docilmente nei ranghi, e si farà il suo partito, Fratelli d’Italia. Ricollegandosi anche lei alla tradizione della formazione precedente, Msi-An, di cui riprenderà il simbolo della Fiamma (e nel 2019 anche la storica sede in via della Scrofa).
Assai meno cruenta, e molto più simile al caso di Giuseppe Conte, è invece la parabola di un altro delfino del Cavaliere: Angelino Alfano. Anche lui avvocato, anche lui designato successore e poi bruscamente diseredato dal padre-padrone del Pdl, anche lui protagonista di un complicato governo di coalizione con il centrosinistra.
E se Grillo ha detto di Conte che non ha visione e non conosce la storia del Movimento, anche Berlusconi, nel 2012, dice di Alfano qualcosa di sorprendentemente simile: “Gli vogliono tutti bene, però gli manca un quid... Soprattutto gli manca la storia. Ma io lo sostengo, poi vedremo…”.
Al momento della rinascita di Forza Italia dalle ceneri del Pdl e della scelta di non confermare la fiducia al governo guidato da Enrico Letta, nel novembre del 2013, un pezzo dei dirigenti del partito, perlopiù provenienti da Forza Italia (prima versione), decidono con Alfano di non (ri)aderire a Forza Italia, fondando dunque Nuovo centrodestra. Nome obiettivamente bizzarro per un partito la cui principale funzione consisterà nel garantire la maggioranza a tutti i successivi governi di centrosinistra della legislatura. Ad ogni modo, la formazione si estinguerà prima ancora di arrivare alle elezioni (alcuni dirigenti, come Beatrice Lorenzin, aderiranno al Pd, altri, a cominciare da Alfano, torneranno alla vita privata).
Il problema della leadership – e dunque della successione – non è insomma un problema che riguardi solo la sinistra, checché se ne dica.
Come mostra anche la vicenda del Movimento 5 stelle, opaca organizzazione piramidale che si è sempre autorappresentata come orizzontale, partecipativa e “dal basso”, la distinzione non è tra formazioni democratiche e strutture verticistiche (semmai tra partiti capaci sopravvivere ai propri leader e leader capaci di sopravvivere ai propri partiti). Alla lunga, infatti, anche a sinistra sono rimasti in pochissimi a menarla con la storia della leadership collettiva e il mito dell’assemblearismo. Tutti dicono di volere un leader forte e autorevole. Quello che non si dice, perché non sta bene, è che ciascuno intende se stesso.
In questo senso, la recente storia del Partito democratico offre un campionario pressoché inesauribile, per tutte le tipologie di leadership, con tutti gli schemi di gioco che sia possibile immaginare: dal predicatore al rottamatore, dal centravanti di sfondamento al “falso nueve” (come Renzi definì perfidamente, all’indomani della batosta elettorale del 2018, il profilo molto istituzionale di Paolo Gentiloni, presidente del Consiglio uscente).
Qui la logica delle primarie ha in qualche modo istituzionalizzato, ma anche cronicizzato, lo scontro. Un largo fronte di commentatori, dirigenti e opinione pubblica ha a lungo rimproverato i democratici per assenza di leadership, in particolare dal fronte renziano, ad esempio, ai tempi in cui segretario era Bersani. Curiosamente, l’eterna retorica contro la divisione e le lotte di corrente si sposava in questo caso con l’adesione al principio della “rottamazione”, che obiettivamente non era proprio il massimo in fatto di spirito unitario e solidarietà di partito.
In compenso, non appena Renzi è divenuto segretario, e a maggior ragione quando la sua parabola ha cominciato a declinare, ecco che la tanto sospirata leadership era diventata arroganza, se non addirittura pulsione autoritaria, e all’improvviso il problema atavico della sinistra non erano più, come si era scritto per decenni, le oscure trame dei capicorrente gelosi, non erano più sabotatori, pugnalatori e traditori infingardi, ma tutto il contrario: il conformismo e la viltà di tutti quei dirigenti che non sabotavano, non complottavano e non promuovevano rivolte contro il piccolo tiranno.
Sta di fatto che, con tutti i suoi limiti, il Pd è l’unico partito che in questi anni abbia visto avvicendarsi leader e gruppi dirigenti diversi, sulla base di regole certe e votazioni democratiche. Dunque non è un termine di paragone sensato per quello che sta accadendo in questi giorni nel Movimento 5 stelle, che semmai somiglia di più a quel che accadeva nella Lega Nord di Umberto Bossi, con le occasionali rivalità e ribellioni interne, in particolare da parte di Roberto Maroni (anche lì, come più tardi per Alleanza nazionale, c’era spesso di mezzo Berlusconi).
Forse però l’esempio migliore è un altro. A pensarci bene, infatti, lo scontro tra Grillo e Conte, sullo sfondo delle tensioni suscitate dalla coabitazione al governo e dai difficili tentativi di alleanza con il Partito democratico, ricorda quello tra Marco Pannella e Daniele Capezzone al tempo del secondo governo Prodi. Perfino nel linguaggio.
Da un lato, oggi, c’è l’anziano fondatore che apre lo scontro con l’aspirante successore dichiarando davanti ai parlamentari del suo movimento: “Sono il garante, non sono un coglione” (Grillo, 24 giugno 2021). Dall’altro, allora, c’è il vecchio leader carismatico che scomunica il giovane segretario davanti alla direzione del suo partito: “Ti credi davvero di essere il grande stratega mentre gli altri sono degli stronzi?” (Pannella, 26 ottobre 2006). Qui c’è Conte che invita Grillo a non fare il padre-padrone, lì c’è Capezzone che quasi implora: “Perché ti devi infilare nel cliché più stupido, quello di Pannella che divora i suoi figli?”. Con la minacciosa replica dell’interessato: “E’ da vent’anni che non mi faccio spaventare da questo”.
E’ una delle tante somiglianze tra Grillo, il comico che decise di trasformare i suoi spettacoli in comizi, e Pannella, il politico che decise di trasformare i suoi comizi in spettacoli. Entrambi hanno voluto costruire comunità chiuse, anche quando capaci di raccogliere larghi consensi all’esterno, privilegiando sempre la compattezza rispetto all’allargamento, la controllabilità alla crescita. Entrambi hanno preferito presentare se stessi nel ruolo del profeta disinteressato e visionario piuttosto che del capo, ma i confini di quelle comunità, al dunque, li hanno difesi sempre con un notevole grado di autoritarismo, giustificato naturalmente dalle dure necessità della lotta contro il sistema. Un sistema politico-economico-mediatico dai contorni a dir poco nebulosi, cangianti a seconda delle loro mutevoli esigenze, ma al fondo sempre grosso modo corrispondenti al concetto: tutti gli altri.
Quanto alla somiglianza tra Conte e Capezzone, tra l’eroe dei due governi, capace di guidare due successivi esecutivi di opposto colore politico, e il fervente alfiere delle battaglie liberali, liberiste e libertarie, oggi intellettuale di riferimento del fronte sovranista, statalista e illiberale, nonché firma di punta della Verità di Maurizio Belpietro, confido nell’intelligenza del lettore.