il foglio del weekend
Storia del gran ribaltone
Dai cambi di casacca ai cambi d’idee. Per i grillini (e non solo) fare l’esatto contrario di quel che si è detto un minuto prima è diventato motivo di vanto
L’articolo che state leggendo dovrebbe constare di circa dodicimilacinquecento caratteri, spazi inclusi. Se volessi dilungarmi, potrei arrivare a tredicimila. Lo dico per darvi un’idea approssimativa di quali siano le dimensioni della pagina che avete tra le mani. Ebbene, se andate sul sito della Camera dei deputati, nella sezione relativa ai gruppi parlamentari, e cliccate su “modifiche intervenute”, trovate un elenco con i nomi di tutti gli eletti che dall’inizio della legislatura hanno cambiato collocazione. Esempio: “Forza Italia-Berlusconi presidente – In data 18 aprile 2018 ha aderito al gruppo il deputato Enrico Costa, proveniente dalla componente politica del gruppo Misto ‘Noi con l'Italia’. In data 4 ottobre 2018, il deputato Vittorio Sgarbi lascia il gruppo per aderire al gruppo Misto”. E così via. In poche parole: la lista ufficiale di quelli che l’abituale sciatteria della cronaca definisce “cambi di casacca”.
Nel momento in cui scrivo, tale elenco consta di quarantanovemilatrecentottantacinque caratteri, spazi inclusi. Ciò significa che se lo avessi voluto riportare qui integralmente, senza aggiungere nient’altro, il testo avrebbe occupato quattro pagine. In Senato, dove i seggi sono la metà rispetto a quelli della Camera, e dove anche lo stile dei resoconti in materia di variazioni nella composizione dei gruppi è più stringato, quasi tacitiano, i numeri sono conseguentemente più bassi. Ma ugualmente significativi: tredicimiladuecentodieci caratteri, spazi inclusi. Per quanto le proporzioni del fenomeno migratorio possano colpire l’immaginazione dell’osservatore, va detto subito che il dato più significativo di questa folle legislatura, tuttavia, non riguarda i cambi di casacca, ma i cambiamenti di idee (una relazione tra i due fenomeni indubbiamente esiste, ma l’effettiva incidenza del cambiamento di idee sul cambiamento di collocazione è ritenuta controversa).
All’inizio della legislatura, cominciata nel 2018 con la vittoria contesa tra un centrodestra capitanato da Matteo Salvini e un Movimento 5 stelle guidato da Luigi Di Maio, il 75 per cento del nuovo parlamento – compresa Forza Italia, per il vincolo di coalizione che la legava alla leadership salviniana – era ufficialmente schierato su posizioni no euro e antiatlantiche (con una certa oscillazione tra posizioni filoputiniane e filocinesi). Tre anni dopo, e senza che alcuna tornata elettorale ne abbia alterato la composizione, quello stesso Parlamento è schierato al 75 per cento su posizioni diametralmente opposte, a sostegno del governo guidato da Mario Draghi, che sin dal discorso di insediamento ha voluto qualificare il suo esecutivo come europeista e atlantista.
Tre anni fa, all’indomani del voto, l’unico schieramento che avrebbe potuto identificarsi in tali posizioni era il centrosinistra, vale a dire sostanzialmente Pd e Leu (con qualche distinguo per Leu, dove non mancavano pulsioni no euro). Tre anni dopo, l’unico partito che ufficialmente non le condivida è Fratelli d’Italia (cui volendo si possono sommare le schegge dissenzienti dei Cinque stelle e di Leu, come la rediviva Sinistra italiana guidata da Nicola Fratoianni). Insuperabile, per velocità e ampiezza della banda di oscillazione, è senza dubbio la Lega di Salvini. Formazione che, va detto, in una simile gara partiva già con diversi metri di vantaggio, essendosi trasformata in pochi anni, da forza separatista orgogliosamente anti-italiana il cui slogan principale era “prima il Nord”, in partito nazionalista il cui slogan principale è “prima gli italiani” (non mi intendo abbastanza di storia dei partiti separatisti, ma sarebbe interessante scoprire se esista un solo caso simile al mondo, che so: un partito basco fiancheggiatore dell’Eta passato d’improvviso con la destra post-franchista, o una scheggia del Sinn Féin trasformatasi di colpo in movimento unionista).
Niente però assomiglia all’irresistibile carambola compiuta da Salvini, dalle sfilate con la maglietta di Putin e la felpa no euro ai convegni sul Pnrr con la maglietta di Draghi (d’accordo, quella sulla maglietta di Draghi è una battuta, almeno che io sappia: mi rendo conto che la natura del personaggio, purtroppo, impone la precisazione).
E cosa dire del Pd, che ha passato la prima parte della legislatura, durante l’esecutivo gialloverde, accusandolo di fare strame dei più elementari principi di civiltà, umanità e buona amministrazione, e persino della Costituzione, per poi, una volta subentrato al governo al posto della Lega, tenersi buona parte di quei provvedimenti, e nel caso del taglio costituzionale dei parlamentari votarli pure, persino al referendum?
Il fatto è che l’abolizione del principio di non contraddizione dal discorso politico ha portato all’affermazione di una logica paradossale nel dibattito pubblico, in cui fare l’esatto contrario di quel che si è detto un minuto prima può diventare persino motivo di vanto.
L’esempio più significativo, da questo punto di vista, è l’argomentazione con cui a suo tempo Nicola Zingaretti ha difeso la sua strategia di alleanza organica con i Cinque stelle. Nel rintuzzare le critiche, infatti, l’allora segretario del Pd ha più volte esposto la tesi secondo cui non si poteva stare al governo “da nemici” (tesi discutibile e smentita dai numerosi governi di unità nazionale di cui il Pd ha fatto parte, sia prima che dopo, ma in sé logicamente coerente), rivendicando però subito dopo, a paradossale conferma dell’assunto, che infatti lui era contrario sin dall’inizio anche all’idea di governarci insieme. Ma avrebbe potuto dire lo stesso, simmetricamente, il suo compagno di coalizione Di Maio, che il 18 luglio 2019 registrava un video per mettere a verbale che “col partito che in Emilia Romagna toglieva alle famiglie i bambini con l’elettroshock per venderseli io non voglio avere nulla a che fare”, e il 5 settembre 2019 giurava come ministro degli Esteri del governo M5s-Pd. Mi rendo conto che l’elenco risulti ormai persino noioso. Il fenomeno ha raggiunto infatti un livello talmente pervasivo da costituire una sorta di immunità di gregge, che spunta le armi di qualunque tentativo di polemica politica fondata su un principio di coerenza (anche soltanto di coerenza logica).
Negli anni Novanta e ancora all’inizio del Duemila poteva apparire sensato, comunque la si pensasse nel merito, rinfacciare a un vecchio dirigente della sinistra proveniente dal Pci la contraddizione tra le sue posizioni del momento e le dichiarazioni pronunciate ai tempi dell’intervento sovietico in Ungheria, nel 1956, cioè mezzo secolo prima. Oggi un simile esercizio sarebbe materialmente impossibile: per seguire svolte e controsvolte compiute lungo un arco temporale altrettanto lungo da uno qualsiasi dei principali dirigenti politici, con rare eccezioni che al momento non mi vengono in mente ma certamente ci saranno, non basterebbe un articolo, e nemmeno un libro. Ma il problema, in verità, non è che sarebbe impossibile dar conto delle sue evoluzioni nell’arco degli ultimi cinquant’anni; il problema è che sarebbe impossibile seguirle nell’arco degli ultimi cinque. In qualche caso, persino degli ultimi cinque minuti. Vedi il caso di Salvini che nella stessa giornata, poche settimane fa, è riuscito a candidare l’ex presidente della Bce al Quirinale e a schierarsi con Viktor Orbán contro l’Europa dei tecnocrati e dei banchieri.
A pensarci bene, è il più grande risultato politico che i partiti populisti potessero raggiungere. Andati al potere gridando che i politici erano tutti uguali, che destra e sinistra non significavano niente, perché era solo una questione di poltrone, in appena tre anni sono riusciti a dare una plastica dimostrazione della loro tesi. Una dimostrazione così completa da sfidare, con l’irrefutabile prova dei fatti, qualunque controargomentazione razionale, anche da parte del più irriducibile oppositore di ogni forma di qualunquismo e antipolitica.
Un risultato che è giusto ascrivere anzitutto allo strenuo impegno del Movimento 5 stelle. Partito arrivato in Parlamento su posizioni no euro e no vax, spostatosi progressivamente su posizioni ultraeuropeiste e favorevoli all’obbligatorietà dei vaccini (“Il vaccino contro il Covid-19? Quando arriverà, e speriamo presto, dovrà essere obbligatorio”, dichiarava il viceministro alla Salute grillino Pierpaolo Sileri nell’aprile 2020, e persino Barbara Lezzi si diceva d’accordo).
Per non parlare di tutto la loro retorica sulla democrazia diretta, il no ai politici di professione, il limite delle due legislature e soprattutto il vincolo di mandato, che avrebbero voluto introdurre in Costituzione, per mettere fine all’indegno spettacolo del trasformismo parlamentare. Come è noto, ma è sempre istruttivo ricordare, il gruppo parlamentare che nel campo dei cambiamenti di schieramento ha offerto il più grande spettacolo dopo il big bang elettorale del 2018 è proprio il Movimento 5 stelle, il quale nel corso della legislatura ha perso oltre un centinaio dei propri eletti, disseminandoli in tutti, ma proprio tutti, i raggruppamenti degli altri partiti, da Forza Italia a Italia viva, escluso solo il gruppo delle minoranze linguistiche. In perfetta coerenza, del resto, con il comportamento di un partito che nel frattempo ha partecipato a tutte, ma proprio tutte, le diverse e anche opposte coalizioni di governo della legislatura, alleandosi prima con la Lega contro il Pd, poi con il Pd contro la Lega, quindi con entrambi, oltre a Forza Italia e a praticamente tutti gli altri, escluso solo Fratelli d’Italia, unico partito con cui i Cinque stelle non abbiano governato mai (per scelta di Fratelli d’Italia, ovviamente). Un dettaglio che può apparire singolare, essendo Fratelli d’Italia il partito di gran lunga più affine ai Cinque stelle dal punto di vista ideologico, e si spiega forse con un problema di eccessiva concorrenzialità.
Se pensate che quest’ultima sia una battuta, prendete manifesti, slogan, card del partito di Giorgia Meloni su euro, Europa, imprese e lavoro, e confrontateli con il materiale utilizzato fino a qualche anno fa da Di Maio, e tuttora da Alessandro Di Battista: vedrete che non solo forma e contenuti, ma persino lessico, grafica e lettering sono praticamente indistinguibili. E’ un altro dei tanti misteri di questa assurda legislatura, in cui solo chi si somiglia non si piglia.
Come tutto questo si concili con la retorica di un movimento nato contro la casta dei partiti attaccata alle poltrone, ciascuno può giudicare da sé. Ma il bello è che meno di un mese fa il segretario del Pd, Enrico Letta, aveva solennemente incontrato Giuseppe Conte per concordare con lui una riforma dei regolamenti parlamentari proprio con il dichiarato obiettivo di fermare la proliferazione dei “cambiacasacche”.
Iniziativa come minimo spiazzante da parte dei leader di due partiti che solo pochi mesi prima erano assai impegnati nel fomentare la nascita di nuovi gruppi in Parlamento, composti da reduci e transfughi delle più varie provenienze, allo scopo di salvare il secondo governo Conte. Come testimonia, nell’elenco sopra citato relativo al Senato, la breve e sfortunata missione di Tatiana Rojc, che il 25 gennaio lasciava il gruppo del Pd per infiltrarsi nel raggruppamento dei “costruttori”, rientrando mestamente alla base il 30 marzo, dopo il fallimento dell’operazione.
Fatto sta che è passato un mese e dell’iniziativa contro i cambi di casacca promossa da Letta e Conte non si è saputo più niente. Forse perché le recenti evoluzioni del dibattito interno ai grillini, con l’ipotesi di una nuova scissione e la nascita di un partito contiano, hanno saggiamente indotto a soprassedere, per evitare il caso più unico che raro di legge ad personam, o per meglio dire contra personam, promossa dalla stessa persona che ne sarebbe stata non già la prima beneficiaria, ma la prima vittima.
P.s. Nel momento in cui mi apprestavo inviare l’articolo sono stato costretto a riaprirlo per dare conto del seguente post – che riporto di seguito integralmente – pubblicato ieri sui suoi profili social dalla stessa persona, Luigi Di Maio, che all’inizio di questa legislatura aveva annunciato in piazza la richiesta di messa in stato di accusa di Sergio Mattarella per attentato alla Costituzione (punibile con l’ergastolo). “La gioia negli occhi del Presidente Mattarella dopo il successo agli Europei di calcio è un’immagine storica. Un’immagine che ha trasmesso fiducia, felicità e serenità a un intero Paese, milioni di italiani che oggi dedicano al Presidente i più sinceri auguri per i suoi 80 anni. Punto di riferimento per ognuno di noi, nei mesi più drammatici e dolorosi di questa pandemia è stato sempre presente, ha saputo confortare le persone più fragili e trasmettere messaggi di speranza anche a chi doveva prendere decisioni importanti per il futuro degli italiani. Ci ha incoraggiato a non mollare, a non abbatterci, a non fermarci davanti alle difficoltà. Una guida saggia e autorevole anche nelle fasi politiche più delicate. Per tutto questo le siamo immensamente grati, Presidente. Buon compleanno e viva l’Italia”. Non credo di dovere aggiungere altro.