il foglio del weekend

Giancarlo Giorgetti, il guardiano del Drago

Stefano Cingolani

Acciaio, partecipate e grandi gruppi industriali. Dentro la strategia del ministro dello Sviluppo economico, più governativa che mai

Tamburi e fischietti che rimbombano e sibilano lungo via Veneto; striscioni e cartelli che tappezzano l’ingresso di palazzo Piacentini; manifestazioni e cortei che i poliziotti cercano di incanalare nelle stradine adiacenti. Cento, centocinquanta, non si contano i “tavoli di crisi” e chi si siede vuole una cosa soltanto: che il governo intervenga, cioè sborsi quattrini per salvare il salvabile e ciò che salvabile non è. Il rituale si ripete da molti anni, da quando il ministero dello Sviluppo economico è diventato il ministero dei Salvataggi economici. E’ rimasto l’acronimo, Mise, a mascherare una ben diversa sostanza.

 

Usiamo il passato non perché non sia ancora così, ma perché non dovrà più esserlo. E’ un impegno che il governo ha preso con se stesso, non solo con l’Unione europea, e Giancarlo Giorgetti, titolare del ministero, è lì per rispettarlo, lui insieme al primo cerchio che si stringe attorno a Mario Draghi, quello che possiamo chiamare il direttorio dell’economia: Daniele Franco, l’uomo dei conti, al ministero dell’Economia e delle finanze; Roberto Cingolani alla Transizione ecologica (il suo buon senso ha già attirato gli strali dei pentastellati che lo consideravano uno di loro); Enrico Giovannini che ha messo insieme Trasporti e infrastrutture; Vittorio Colao alla guida del digitale.

   

Al di là delle differenze politiche, culturali, professionali, tutti loro sono convinti che siamo a una svolta o meglio a un cambio di paradigma. I sindacati, i partiti, i governi che inseguono le singole emergenze, non sono pronti. Non è questione di politica industriale in senso tradizionale, di incentivi, stimoli, sostegni, ammortizzatori, occorre porre sul tavolo un obiettivo ben più ambizioso e scrivere un nuovo patto sociale. La fine del blocco dei licenziamenti lo ha messo all’ordine del giorno e anche Andrea Orlando deve unirsi al club della transizione economica per trasformarsi in ministro del nuovo mercato del lavoro, non più della vecchia cassa integrazione. 

  

La pandemia per alcuni aspetti ha avviato la grande trasformazione (si pensi allo smart working) e per altri l’ha accelerata (il primato digitale, la riconversione energetica). E’ un processo più ampio rispetto ad altre crisi strutturali come quella degli anni Settanta innescata dal balzo dei prezzi petroliferi. Allora la società industriale cambiava pelle, generando al suo interno la società post industriale. Oggi stiamo andando ancor più in là, in un territorio inesplorato.

 

Mezzo secolo fa il vecchio patto sociale, quello del miracolo economico, venne riscritto con le pensioni e lo statuto dei lavoratori, poi è stato rappezzato con più welfare e meno lavoro, più debiti pubblici e meno produttività. La cosiddetta “controrivoluzione liberista” intendeva rimettere al centro la crescita e ridimensionare l’assistenzialismo: in Italia non c’è riuscita. A questo punto, il modello va ripensato da cima a fondo, anche quello manifatturiero. Quanti ne sono consapevoli? I grandi timonieri non ci sono più, non c’è la Fiat che, nel bene e nel male, trascina tutto il resto comprese le salmerie. Il governo ha una funzione importante, ma come aiuto non come sostituto: a ciascuno il suo. Quanto al Mise, una volta rifiutato il ruolo di nave ospedale, può usare il forcipe invece del cerotto, un compito da fare tremare i polsi, una prova ardua per Giorgetti.

  

Leghista e bocconiano, lombardo senza se e senza ma, giovane virgulto della leva di Umberto Bossi, a 55 anni ha già accumulato una lunga esperienza; oggi è considerato l’esponente liberale ed europeista del Carroccio, vicino agli ambienti economici e al “partito dei produttori”, un politico competente a detta dei parlamentari che hanno lavorato con lui da ben sei legislature; ama restare appartato, non frequenta salotti, non rilascia che rare e asciutte dichiarazioni, vuole essere ricordato come uomo del fare e non del dire. Giorgetti, secondo ogni dottor sottile che dedica tempo ed energia a scrutare i sospiri del Palazzo, si sta sempre più affermando come spalla e supporto di Mario Draghi. Per lungo tempo i fili del potere economico sono stati tirati dal Mef nato vent’anni fa quando Giulio Tremonti decise di sposare il Tesoro con le Finanze, le spese con le entrate. Il Pnrr ha cambiato lo scenario: oggi si tratta non solo di gestire il bilancio pubblico in modo da non scontentare Bruxelles, bensì di governare massicci investimenti, di mettere al centro l’industria, la produzione, la crescita, e il centro decisionale passa per via Veneto. Ma cosa ha davvero in mente Giorgetti? Mettiamoci a scrutare il volo degli uccelli, facciamo gli aruspici (del resto siamo a Roma) cominciando dagli ultimi fatti.

  

E’ balzata sotto i riflettori una crisi strutturale tra le più complesse, quella che attraversa l’automobile e colpisce in primo luogo le imprese che producono componenti. La Gkn, la società britannica che chiude lo stabilimento di Firenze, è una di queste, così come la Timken di Brescia e la Gianetti di Ceriano Laghetto. Sono le prime avvisaglie di una riconversione profonda. C’entra l’auto elettrica che provocherà una riduzione delle forniture tradizionali (sempre più la vettura diventa una piattaforma digitale), ma c’entra anche la tendenza a riportare in casa una parte del ciclo produttivo per ricomporre la catena del valore. L’Italia seconda nella Ue dopo la Germania, è in grado di mantenere la sua posizione? Il governo nel calibrare l’uscita dal blocco dei licenziamenti ha favorito il tessile e abbigliamento, pensando che sia il più fragile e il più esposto, ma anche per inviare un messaggio. Ci sono marchi italiani diventati di assoluto livello mondiale proprio perché producono in Italia, questa è una delle differenze di fondo con la Francia dove prevalgono, sia nel caso LVMH sia con Kering, la finanza, il marketing, la progettazione strategica sulla produzione. Una caratteristica che va salvaguardata, ma la risposta non è salvare tutti. 

  
L’ultimo caso riguarda Zegna: il gruppo si fonde con la Investindustrial del finanziere Andrea Bonomi e quota l’azienda a Wall Street. Arriveranno 878 milioni di dollari la metà dei quali andrà alla famiglia che comunque resterà azionista di controllo. Zegna per ora non vende, a differenza da quel che hanno fatto Loro Piana e Bulgari, cerca un’alternativa, ma non la trova nel fragile mercato finanziario italiano (ricordiamo che Prada si è quotata a Hong Kong nel 2011). Potrà mai nascere un polo nazionale della moda e del lusso? Bonomi s’è messo sulle orme di Arnault e Pinault? O magari il magnete imprenditoriale sarà John Elkann con la Ferrari e Giorgio Armani?

  

Crisi nuove, dunque, s’aggiungono a quelle ormai irrisolvibili: dalla Whirlpool di Napoli alla ex Embraco in amministrazione controllata o a Termini Imerese dove è fallita la re-industrializzazione dopo l’uscita della Fiat. Si possono minacciare le multinazionali come ha fatto il ministro Orlando, si può invocare l’immancabile Cassa depositi e prestiti come chiedono i sindacati e molte forze politiche (non ultimo il M5s), ma è tutto inutile. Se un’azienda non si regge sulle sue gambe, tenerla in piedi con le stampelle statali è solo una perdita di risorse collettive. Se invece ha futuro e può essere risanata allora l’intervento pubblico, con un obiettivo chiaro e limitato nel tempo, al fianco di investitori privati, può essere efficace. Lo stato in una logica di mercato, è questo il modello pragmatico che piace a Giorgetti e che il Mise sta cercando di attuare nel gran laboratorio siderurgico, convinto che con le Acciaierie d’Italia, la ex Ilva, si stia imboccando la strada giusta. 

  
A Bari il ministro ha dichiarato che il piano del governo congegnato insieme a Franco e Cingolani “sarà un esempio da presentare al mondo, questa è la nostra ambizione”, insomma farà da apripista, si è sbilanciato Giorgetti abbandonando il basso profilo. Il progetto dovrebbe arrivare entro la fine del mese e la società intanto diventa a tutti gli effetti pubblico-privata con il 40 per cento ad Arcelor Mittal che investe 70 milioni di euro a fronte del miliardo di Invitalia, cioè del Tesoro. La situazione è favorevole: c’è domanda, c’è una spinta nuova che viene dalla svolta green, c’è Bruxelles che allenta i limiti per gli aiuti di stato compatibili con le nuove priorità europee. Tuttavia, ci vorrà tempo, Giorgetti lo ripete sempre e non solo per mettere le mani avanti; ci vorrà la collaborazione di tutti, dai sindacati che ora sono alle prese con la cassa integrazione per 5 mila lavoratori e con le proteste di piazza, alle amministrazioni locali, agli investitori, per non parlare della magistratura. 

  

A Taranto un’acciaieria modello, pulita e produttiva; e negli altri centri siderurgici, a Terni dove la ThyssenKrupp se ne va o a Piombino dove l’indiana Jindal stenta? L’Ast (Acciai speciali Terni) non preoccupa troppo, ha mercato, l’impianto è efficiente, esiste una lista di potenziali acquirenti tra i quali importanti imprese italiane. Più complicato è un intervento nello stabilimento toscano che andrebbe ristrutturato. Il rischio che spunti il sogno di ricreare la Finsider esiste, c’è una pressione che viene da molti fronti, diversi ma convergenti, tuttavia non è questo che ha in mente il governo, a cominciare dallo stesso Giorgetti. 

   
Occorre un piano strategico, questo sì, per stabilire quale sarà nei prossimi anni la collocazione dell’Italia nella siderurgia europea (si trova al secondo posto nella Ue dopo la Germania) e per coinvolgere una imprenditoria privata numerosa e in alcuni casi molto competitiva. Stato e mercato, pubblico e privato, dunque, senza allargare i confini, ma con una chiara divisione del lavoro.

  

Un percorso che vale anche per molte sfide industriali, dalla gigafactory di Stellantis che sorgerà a Termoli, all’intricato labirinto digitale, dalla rete fissa ad alta velocità alla nuova rete mobile. Giorgetti è sembrato non solo cauto, ma freddo sul 5G. Sarà la pressione del popolo del No e dei comuni che hanno approvato centinaia di delibere per opporsi alle antenne, anche al potenziamento di quelle esistenti. “Non mi occupo di salute, non so quali limiti elettromagnetici fanno male o bene”, taglia corto il ministro con i giornalisti. “Sto facendo la mappatura di chi copre o non copre”, aggiunge. In sostanza, il Mise vuole prima analizzare i piani dei singoli operatori. Italia Viva, il partito di Matteo Renzi, ha presentato un emendamento considerato “irrinunciabile” per alzare i limiti portandoli a livello medio europeo oggi tre volte superiore anche se resta sotto la soglia di rischio stabilita dalla commissione internazionale. La proposta piace a Colao. Anche Giorgetti si dichiara d’accordo, ma vuole che la scelta venga presa “in modo trasparente e chiaro”. La questione riguarda sia l’impegno dello stato sia, anzi soprattutto, quello delle aziende le quali sono tentate dal sospendere gli investimenti già previsti in attesa dei fondi in arrivo con il Pnrr che, invece, debbono essere aggiuntivi non sostitutivi. Mappatura e controllo, dunque, come per la rete fissa. Il progetto di una società unica, sia a maggioranza pubblica sia con un ruolo dominante della Tim, è finito in un cassetto. La priorità è il servizio, garantire l’accesso più ampio e una connessione più veloce possibile, non chi lo fornisce. La presenza di più operatori tutela la concorrenza. Ma a questo punto perché mai lo stato, attraverso la Cdp, dovrebbe essere il secondo azionista di Tim e il primo di Open fiber? Non è il momento di scegliere facendo decollare la fibra ottica? E’ una questione delicata che riapre il più ampio dossier sull’intervento governativo e sui suoi strumenti.

  

La Cassa depositi e prestiti in questi anni ha dilatato il suo raggio d’azione, con più veicoli e in molti settori. Gestisce partecipazioni in alcuni dei più grandi gruppi pubblici, come l’Eni, Snam, Terna, Italgas, Poste, Sace, Ansaldo energia, Fincantieri, e privati come Webuild e Tim, è intervenuta ad ampio spettro persino negli hotel a 5 stelle del britannico Rocco Forte, ha resistito alla pressione per salvare l’Alitalia, ma ha acquisito l’88,06 per cento di Autostrade per l’Italia (44,9 per cento direttamente il resto diviso tra i fondi Blackstone e Macquarie con il 21,5 per cento a testa). Un impegno pesante sul piano finanziario (oltre 3,2 miliardi di euro) e su quello gestionale. Il compito del nuovo amministratore delegato Dario Scannapieco sarà mettere ordine, razionalizzare, cedere quel che non è considerato strategico, fare fino in fondo della Cdp una leva per lo sviluppo. Il modello non è l’Iri, né quello di un fondo sovrano, piuttosto è la Bei, la Banca europea per gli investimenti. Insomma, niente salvataggi, ma diventare strumento fondamentale del Pnrr. La Cassa risponde al Mef che è il suo azionista, tuttavia i progetti andranno coordinati anche con il Mise; insomma, sarà di nuovo centrale la coppia Giorgetti-Franco, in Italia come in Europa. 

 

La dimensione internazionale s’è fatta sempre più importante per la gestione dei fondi europei e per discutere tempi, modi, mezzi, ricadute economico-sociali della grande trasformazione. La dialettica tra ambiente e industria è spesso conflittuale, lo dimostra il G20 sul clima questa settimana a Napoli. E non c’è solo la questione cinese. La Germania intende assumere la leadership della transizione energetica anche su pressione dei suoi grandi gruppi (Volkswagen e Bosch su tutti per quel che riguarda l’auto elettrica). Quale sarà la ricaduta sul Mittelstand, su quel tessuto molto ampio di imprese medio-piccole che è il cuore del Modell Deutschland e la base stessa del suo sistema politico? Il dopo Merkel, alle elezioni del prossimo settembre, ruota attorno a questo dilemma, lo stesso che angoscia l’Italia. Per giocare bene le proprie carte è necessario avere idee chiare in testa: così come c’è un modello italiano nella manifattura, potrà esistere un modello italiano nella industria del futuro digitale. 

 
Non mancano insomma i dossier da affrontare, i nodi da sciogliere, gli intrecci da sbrogliare, Giorgetti se volesse potrebbe restare anni in via Veneto. In realtà dice in giro che non voleva nemmeno fare il ministro. Poi però ha fatto due passi avanti e non ne farà nessuno indietro.