Il rutto di Travaglio su Draghi merita una pernacchia
Niente zelo, lasciamo perdere il linciaggio. Spunti di draghismo ortodosso
Soprattutto, niente zelo. Il rutto di Marco Travaglio contro Mario Draghi merita una pernacchia, non il linciaggio morale in nome di un orfano che oggi ha 74 anni e fa il capo del governo. Nella devozione, lo zelo è commovente. In critica e in politica è molesto, autolesionista, supremamente inelegante. In fondo, che cosa rappresenta il direttore del Fatto? E’ pazzo di Conte, Conte e Bisconte indifferentemente, perché era pazzo di Grillo, che lo aiutava a sputare sulla Repubblica, sul garantismo giuridico, su una generica decenza che con quella pretesa di mettere agli arresti la politica e quel giornalismo da mattinale di polizia è evaporata inevitabilmente. Fino al Papeete, anche Salvini gli andava benone. Ora non gli va bene nemmeno più Grillo. Non fosse parte di quel progetto malmostoso, e dunque stupidamente cieca al fenomeno Draghi, sarebbe lodevole perfino, e segno di critica e di schietta opposizione, la sua difesa del presidente modesto e, come dice Bersani, fuori dal giro, che però ha domato il virus e fatto cacciare i quattrini ai frugali d’Europa. Come ha sempre fatto, Travaglio ha trasformato la sua malattia in fissazione, quella del Conticidio, e scrive di economia e di giustizia con una precisa misura psichiatrica di patologia quotidiana, ma è nell’ambito dei suoi diritti che nessuno zelo dovrebbe affrettarsi coralmente a negare.
E’ fastidioso ammirare come noi il politico Draghi, celebrare la virtù e la preziosa necessità delle élite, augurarsi il meglio per la legge Cartabia e quella sulla concorrenza, magari conservare un buon ricordo di un governo biscontiano che smentì, anzi capovolse, la logica dell’assalto rancoroso, frustrato e autoritario alle istituzioni del Salvini-Di Maio, di cui Conte era notoriamente vice dei vice, e ritrovarsi in compagnia di un vociame zelante e intollerante, in tutto degno del bersaglio che si è scelto in questa ridicola campagna sull’orfelinato. Non è che Travaglio sia un grande problema, da lui non ci si aspetta niente di meno che la feccia del montanellismo, quello dell’attacco alle mestruazioni di Rossana Rossanda, mentre il brio e la verve del Montanelli migliore non sempre sono alla sua portata.
Propongo un codice etico in due articoli del draghismo ortodosso. L’articolo uno dice che è un uomo come gli altri. L’articolo due dice che come economista, come direttore del Tesoro, come funzionario leale e competente del sistema dei partiti italiani da Carli ad Andreotti a Craxi a Berlusconi, come banchiere centrale, come politico europeo capace di autorizzare sulla propria bocca la riedizione de “lo stato sono io”, cioè il whatever it takes, è migliore di molti altri uomini di stato, dunque una bonanza per noi, una fortuna propiziata da Sergio Mattarella e che ci dobbiamo tenere cara, quale che sia il giudizio sul suo venerato predecessore e sul commissario Domenico Arcuri (bentornato). Il resto del draghismo andrebbe derubricato, quando sia appunto zelante e belante, cioè spesso, anche se incrocia la lama con Travaglio, che a infilzarsi ai suoi giochi di parole e alle sue previsioni un po’ incasinate, oltre che agli orrori della sua sottocultura giudiziaria, ci ha sempre pensato da solo.