il retroscena

La zuffa tra Conte e Di Maio. La ripicca di Tajani. Così la Cartabia blinda la sua riforma

Valerio Valentini

Forza Italia vuole un riconoscimento: "Da settimane Via Arenula tratta solo coi 5s". Il Pd teme il riacutizzarsi dei malumori grillini. Fico prova a mediare. Ma la Guardasigilli vede Draghi e conferma la scadenza: entro il 30 il provvedimento va in Aula alla Camera

La zuffa in corso al quarto piano di Montecitorio, da Palazzo Chigi la osservano con l’occhio disincantato di chi in fondo l’aveva detto. “Aprire a modifiche corpose sulla giustizia, significherebbe il liberi tutti”, aveva spiegato Mario Draghi la scorsa settimana, giustificando il ricorso alla fiducia. Che resta comunque la via obbligata, se è vero che Marta Cartabia fa sapere che il termine fissato per l’approdo in Aula del provvedimento resta immutato: il 30 luglio bisognerà approvare la riforma. E così l’accanirsi dei partiti su commi e procedure appare quasi straniante: una sorta di urlo vuoto, inconsistente. E allora ecco che di buon mattino Alfredo Bazoli e Franco Vazio, mediatori infaticabili del Pd, braccano l’azzurro Pierantonio Zanettin nel cortile della Camera. “Ma come: proprio ora che coi grillini si stava trovando la quadra”, protestano. “Ma io ho mandato di tirare dritto”, replica l’azzurro.

 

Sembra infatti quasi una ripicca, un capriccio. “Non siamo mica portatori d’acqua”, è sbottato nel weekend Antonio Tajani coi vertici di FI. “Assistiamo da settimane a una trattativa tra Via Arenula e un solo partito, il M5s”, prova a spiegare Zanettin. “Ma è mai possibile? Allora anche noi vogliamo far sentire la nostra voce”. E in effetti la rimostranza ha la sua legittimità.

 

Se non fosse che la richiesta azzurra, quella d’introdurre una riduzione di pena per i reati contro la Pa, rischia di squadernare tutto il fascicolo. Perché, di fronte all’inammissibilità degli emendamenti azzurri sancita dal presidente della commissione Giustizia, l’azzurro Mario Perantoni, bisognerebbe chiedere l’allargamento della riforma anche all’abuso d’ufficio. “Ma in questo modo come potremmo opporci alla richiesta del M5s di riprogrammare un nuovo ciclo di audizioni e di rinviare la riforma a settembre?”, insiste il dem Bazoli. “Ma io ho ordini superiori”, ribatte Zanettin, con l’aria di chi attua una strategia che lo convince fino a un certo punto. Ma comunque lo fa con zelo: e così, durante l’ufficio di presidenza, il capogruppo azzurro in commissione annuncia la novità: “Abbiamo avanzato un ricorso davanti a Roberto Fico: chiediamo che sia lui a riammettere i nostri emendamenti”. Scelta che sa un po’ d’azzardo, se è vero che poi gli stessi parlamentari azzurri avvicinano quelli del Pd come a chiedere un favore: “Fate anche voi pressione su Fico: se i nostri emendamenti diventano ammissibili, se solo ne discutiamo in commissione, noi siamo comunque soddisfatti”.

 

Chiedono insomma un mero riconoscimento politico, i berlusconiani. Che il presidente della Camera potrebbe forse concedere un poco controvoglia. Sia perché le motivazioni con cui Perantoni ha bocciato quegli emendamenti, già trasmesse a Fico, appaiono solide. Sia perché su quella stessa materia c’era già stato un ricorso analogo, all’inizio dell’iter sulla riforma: ed era già arrivata una bocciatura. “Ma la politica può arrivare dove vuole”, insiste Zanettin. Lasciando insomma prefigurare un’intesa un po’ all’amatriciana: Fico ammette gli emendamenti, a quel punto la Cartabia interviene per dire che no, mettere mano all’abuso d’ufficio in questa sede non è opportuno, ma al contempo darebbe una garanzia che su quella materia si tornerebbe quanto prima, magari già nell’incombente riforma del codice degli appalti, FI si dichiarerebbe soddisfatta, e tutto si chiuderebbe in bellezza. Questo, almeno, è l’auspicio che fa anche Francesco Paolo Sisto, il sottosegretario azzurro alla Giustizia che si trova a dover mediare stretto tra la fedeltà al partito e quella alla sua ministra.

 

Sempre che poi, nel frattempo, l’altro puntello alla riforma non venga meno. Perché è vero che a sentire Luigi Di Maio, l’intesa è imminente, forse già maturata intorno al riconoscimento di un sentiero privilegiato per tutti i reati connessi a mafia e terrorismo, a cui verrebbero riservati tempi più lunghi rispetto a quelli dell’improcedibilità standard anche se non prevedono condanne all’ergastolo. “Ma è anche vero che coi grillini non si può mai dire”, sbuffano nel Pd. Che ancora ieri, nei conciliaboli riservati, raccoglievano sconsolati gli sfoghi degli alleati: “Noi saremmo per chiuderla, questa trattativa”, dicevano nel M5s. “Ma lo leggi Travaglio? Quello poi ci asfalta”. Stessa paura che un po’ nutre anche Giuseppe Conte, se è vero che dal suo entourage nelle scorse ore hanno tentato di attribuire a Di Maio la presunta colpa di tessere la trama di una mediazione. “Così se poi l’accordo non piace ai nostri estremisti, Giuseppe dirà che è colpa di Luigi”, confessano i fedelissimi del ministro della Farnesina.

 

Anche per questo, quando ieri pomeriggio la Cartabia ha discusso a lungo con Draghi sul da farsi, i due hanno concordato sull’opportunità di stringere i tempi: perché la riforma della Giustizia non può diventare la tela di Penelope. Tre giorni all’alba: poi si va in Aula.
 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.