Matteo Salvini in console al Papeete nel 2019 (Ansa)

Stessa spiaggia stesso mare

Salvini e il Papeete del suo scontento

Salvatore Merlo

Il leader della Lega ritorna nel luogo del delitto di cui fu lui stesso cadavere: la spiaggia romagnola. E oggi, come allora, si lamenta del governo di cui fa parte. Ma stavolta senza megafono e senza ministero
 

Le cronache lo raccontano attraversato da un sottile rancore, un bofonchiamento che affiora qua e là nelle sue dichiarazioni, una stizza neppure tanto nascosta. Draghi che lo maltratta e il green pass che non gli piace, il ritorno di Arcuri e di Elsa Fornero, l’immigrazione e la giustizia... E allora ben si capisce che la spiaggia del Papeete, dov’è tornato e ritornerà ancora venerdì per poi lanciare, sabato, la festa della Lega a Milano marittima, per lui non è affatto il luogo dei pieni poteri ma quello della scontentezza cronica. Fu qui che andò a schiantarsi nel 2019, quando pensava di ottenere le elezioni anticipate. È stato qui che è tornato mestamente l’anno dopo, sotto botta, sul luogo di un delitto di cui lui stesso era il cadavere. Ed è qui infine che va spiaggiandosi adesso Matteo Salvini, sempre al Papeete, con mezzo piede nel governo e mezzo fuori. Oggi come allora. Gettando un’occhiata ansiosa all’ignoto: “Che fare con Draghi?”. Il Papeete, dunque. La sua Itaca arruffata, il luogo da cui fugge, ma nel quale infelicemente fa sempre ritorno.

 

Odore di zolfo più che di salsedine. Fu infatti al Papeete che si consumò anche lo scandaluccio della moto d’acqua, quando la polizia fece fare un giretto al figlio dell’allora ministro dell’Interno. Roba trascurabile, certo. Ma sempre malumori, dispiaceri, moti di stizza. Vitellone padano in costume da bagno, il cocktail in mano e la panza di fuori, a quei tempi Salvini girava tra gli ombrelloni lamentandosi senza requie dei grillini, di Toninelli, dello sciocchezzaio a 5 stelle , dei “no” alla Tav e a tutto il resto. Tirava la corda, Salvini. “Così non funziona. Che ci stiamo a fare?”, si chiedeva. Proprio come ora dice che “sulla giustizia le cose non vanno come dovrebbero”. Inappagato e irritabile, sul lettino da mare il segretario della Lega storce la bocca mentre parla di Roberto Speranza e di Luciana Lamorgese.

 

Mordendone quasi i nomi (assieme al Maxibon Motta). E dunque, ancora, come sempre: “Così non va bene”. Chissà. Gemiti, ululati, piccole minacce, minuzzoli di un’irritazione quasi rituale. La maledizione del Papeete, appunto. L’eterno ritorno dell’uguale, o quasi. Nel 2019 c’era Luigi Di Maio, il proconsole, che lo provocava. “Salvini fa il furbo”, gli diceva quello dalla distanza. E allora lui, sempre più torvo ma con le infradito ai piedi, gli rispondeva che “la pazienza ha un limite”. Quindi i due si rincorrevano nei lanci di agenzia, si ficcavano i gomiti nel fianco a colpi di dichiarazioni, piroette, esagerazioni. Niente che un ballo sulla sabbia, con le cubiste sculettanti e l’inno di Mameli sparato a palla, non potesse curare. Ovviamente. Ma solo per un po’. Un attimo di requie.

 

Fino alla fatidica domenica pomeriggio quando Salvini si alzò dalla lunga tavolata e – dopo essersi sparato calamari fritti e vinello frizzante – si trascinò davanti ai cronisti:  “Quasi quasi stasera mando a cacare Di Battista”. Ecco. Oggi manda a cacare Enrico Letta. O quasi. Il segretario del Pd gli dà infatti dell’irresponsabile e allora lui, dalla sua spiaggia del malcontento, gli risponde che “il green pass è una cazzata pazzesca”. Enrico come Luigi. Nel 2019 finì come tutti sanno. Malissimo. Il bofonchiamento finì per tracimare in una crisi di governo aperta ad agosto, così, d’improvviso, tra un ballo e una conferenza stampa in pantaloncini. Un gavettone e un colpo di sole. E senza alcuna comprensione per i diritti del calendario. C’è una coazione a ripetersi, forse. Qualcosa di sfortunato, certamente. È come se Salvini, insistendo, tornando sempre lì al Papeete – stessa spiaggia stesso mare – in realtà volesse consegnarsi a un rito scaramantico. A un esorcismo. Che però non gli riesce.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.