Non solo Conte vs Draghi. Ecco il partito degli ex
Da Prodi a D’Alema, da Renzi a Letta, c’è sempre una sconfitta da vendicare, una rivincita da prendere. Soprattutto a sinistra
In Italia, a ben vedere, c’è sempre un partito dei fuoriusciti che se ne sta acquartierato da qualche parte, nascosto o alla luce del sole, in attesa del momento propizio per prendersi la rivincita. Da ben prima dell’arrivo di Giuseppe Conte e del Fatto quotidiano, di Pier Luigi Bersani e di Articolo Uno, di Matteo Renzi e di Italia Viva. Un partito dei fuoriusciti in Italia c’è sempre stato, da prima ancora che ci fossero i partiti. E da prima ancora che ci fosse l’Italia. Senza risalire fino all’antica Roma, è così perlomeno dai tempi di Dante, che alla figura del più orgoglioso e più nobile dei gran faziosi, il capo ghibellino Farinata degli Uberti, dedicò il canto decimo dell’Inferno. Uno dei più belli, proprio per la forza incancellabile dell’odio di parte che divide l’anima dannata dal pellegrino oltremondano, e che tuttavia non impedisce all’autore di restituire al suo avversario, peraltro mai conosciuto in vita, i tratti del condottiero inflessibile, sempre fedele alle sue convinzioni. E capace anche lì, nel girone destinato ai seguaci di Epicuro, quelli che l’anima col corpo morta fanno, di ergersi impavido, col petto e con la fronte, com’avesse l’Inferno a gran dispitto.
Dai tempi di Farinata degli Uberti a quelli di Massimo D’Alema, obiettivamente, non è che le cose siano cambiate molto. C’è sempre una sconfitta da vendicare, una rivincita da prendere, un partito della revanche che attende solo il suo momento per sferrare l’attacco. Fu così per gli irriducibili seguaci di Romano Prodi all’indomani della caduta del primo governo dell’Ulivo e della sua sostituzione a Palazzo Chigi da parte dello stesso D’Alema (in quello che sarebbe passato alla storia, per una volta scritta dai vinti, come il “complotto del ’98”). Fu così per i dalemiani messi sotto processo nelle piazze ai tempi dei girotondi e del celebre “urlo” di Nanni Moretti, nel 2002: “Con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai!”.
C’è sempre nella politica italiana, e in particolare a sinistra, un generale Massimo Decimo Meridio, comandante dell’esercito del Nord, generale delle legioni Felix, servo leale dell’unico vero imperatore, che avrà la sua vendetta, in questa legislatura o nell’altra.
Ricordo ancora come una delle più delicate testimonianze di cosa significhi la condizione di esule in patria – non solo per i condottieri sconfitti, ma anche per le truppe – una lettera che arrivò in quel periodo al Riformista, giornale in cui lavoravo, allora diretto da Antonio Polito ed edito dall’ex braccio destro di D’Alema, Claudio Velardi, a proposito di un tema apparentemente laterale: il dibattito sul significato di un film di quel periodo, “Master and Commander” di Peter Weir. Lettera in cui un acuto lettore argomentava come, dei due personaggi (allora) recentemente interpretati da Russell Crowe, il generale Massimo (protagonista del Gladiatore) e il capitano Aubrey (protagonista di Master and Commander), non si potesse che fare il tifo per il primo. “Certo – proseguiva – il nostro eroe è vittima degli intrighi altrui: spodestato dall’ambizione di chi credeva amico, dal tradimento di chi doveva sostenerlo, esposto pubblicamente al ludibrio e agli insulti, una specie di fenomeno da baraccone. Ma proprio perché ridotto a prigioniero tra i prigionieri troverà alla fine la forza di combattere, saprà spingere gli oppressi a unirsi e a lottare per la libertà, e conquisterà con loro e per loro la vittoria”. E così concludeva: “E’ con questa speranza, Polito, che leggiamo il suo giornale: perché un giorno dirà ai suoi uomini che il loro generale vive”.
Insomma, che si tratti del generale Massimo o dell’imperatore Romano, i secoli possono passare, antiche civiltà possono scomparire, ma la dura vita del fuoriuscito, a sinistra, non cambierà mai. Vale per gli esuli di Articolo uno ai tempi dell’ascesa renziana, vale per gli esuli renziani di Italia Viva ai tempi del suo declino. Lo dimostra, forse più di ogni altra, la dura esperienza del gladiatore Luciano Nobili, già fuoriuscito all’indomani della vittoria di Bersani alle primarie del 2009, con la sfortunata scissione rutelliana di Api (Alleanza per l’Italia, il partito dalla vita più breve della storia repubblicana); rientrato zitto zitto alla base – ma c’è chi dice che formalmente Nobili non ne fosse mai uscito, rappresentando per qualche tempo un raro ma non unico caso di ubiquità partitica – per godere quindi i benefici dell’apoteosi renziana nel Pd, dopo la caduta di Bersani, e seguire infine il suo leader anche nella cattiva sorte. Vale a dire in Italia Viva.
E se adesso state pensando che si tratta di vecchie storie, buone tutt’al più per fare un po’ di aneddotica, ma inutili per capire la politica di oggi, ebbene, mi dispiace dirvelo, ma non potreste sbagliarvi di più.
C’è sempre uno sgarbo, un’offesa, un affronto da lavare col sangue – metaforicamente s’intende – che grava sui destini collettivi come un’antica maledizione. E che spiega tutto.
Soltanto pochi giorni fa, il 28 luglio del 2021, annunciando l’accordo tra Italia Viva e Pd sulla candidatura di Enrico Letta a Siena, dopo una settimana di tensioni e minacce apparentemente destinate a riaprire l’antica disfida, Renzi dichiarava: “Così ci togliamo dalla storia dello ‘stai sereno’”. Affermazione tanto rivelatrice quanto ingenua. “Stai sereno” è divenuta ormai espressione proverbiale. Già oggi chissà quanti la usano senza nemmeno ricordare la storia dell’hashtag improvvidamente lanciato da Renzi, allora segretario del Pd, per mettere sotto pressione Letta, allora presidente del Consiglio, cui rimproverava di pensare troppo a inesistenti complotti renziani per rimuoverlo da Palazzo Chigi e troppo poco a governare. Un affronto risalente al 17 gennaio 2014. Qualunque cosa si pensi di quella battuta e di tutto ciò che ne seguì, stiamo parlando di sette anni fa. Sette anni e mezzo, per la precisione. Nemmeno gli specchi rotti, nella superstizione popolare, portano sventure per così tanto tempo. Fatto sta che a quella battuta seguì davvero la cacciata di Letta da Palazzo Chigi, con le sue dimissioni, rassegnate il 14 febbraio 2014, all’indomani del voto con cui la direzione, quasi all’unanimità, rilevava “la necessità e l’urgenza di aprire una fase nuova, con un nuovo esecutivo”.
Di qui, da parte di Letta, l’abbandono della politica, e persino dell’Italia, con il suo volontario esilio a Parigi. Fino al marzo del 2021, il momento del grande ritorno, invocato dall’intero gruppo dirigente come segretario e subito votato dall’assemblea nazionale, quasi all’unanimità, anche questa volta. Tra le sue prime parole da leader, ampie rassicurazioni sul non avere conti da saldare, né risentimenti di alcun genere. Tra i suoi primi atti, la pubblica richiesta di dimissioni dei capigruppo renziani (in particolare uno, Andrea Marcucci, considerato il principale punto di riferimento dei fuorusciti di Italia viva), e una serie di incontri con i potenziali alleati di un rinnovato centrosinistra: particolarmente cordiale quello con Giuseppe Conte, allora formalmente nemmeno candidato ad alcun ruolo; lasciato ostentamente per ultimo, a lungo dimenticato e infine sbrigativamente consumato quello con Renzi.
Curiosamente, nel grande abbraccio con Conte, il segretario del Pd si ritrova ancora una volta al fianco di Roberto Speranza, a suo tempo tra i leader della minoranza antirenziana del Pd, che tuttavia in quella storica direzione del 2014 non esitò a sottoscrivere il documento in cui si chiedeva il passo indietro di Letta. Ancora più curioso è il fatto che Speranza oggi è al tempo stesso il ministro della Sanità nell’esecutivo di Mario Draghi e un autorevole esponente di Articolo uno, vale a dire il partito che più di ogni altro – più dello stesso Movimento 5 stelle, per dire – sostiene e alimenta la (neanche tanto) sotterranea campagna di Conte per destabilizzare l’attuale governo e tenere viva negli elettori la fiamma del precedente, guidato da lui. Quello che secondo Goffredo Bettini sarebbe caduto “per una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli”. Non per niente Bettini è esponente del Pd tra i più vicini ai fuoriusciti di Articolo uno, con cui è solito giocare di sponda almeno tanto quanto Marcucci con i confratelli renziani di Italia viva. Di qui la peculiarissima posizione di Speranza, ben evidenziata dal caso sollevato la settimana scorsa dalle parole di Marco Travaglio, al solito ospite d’onore alla festa di Articolo uno, da dove ha spiegato come Draghi “non capisca un cazzo” di sanità, tra gli applausi del pubblico, verosimilmente composto perlopiù di elettori del ministro della Sanità. Il quale da parte sua, temendo forse che qualcuno lo indicasse come la prova vivente delle buone ragioni di Travaglio, si è limitato a definire quelle parole una “uscita infelice”.
Il caso di Articolo uno, e di buona parte del Pd, è dunque uno dei più estremi esempi di ubiquità politica, singolarissima combinazione di entrismo e fuoriuscitismo, in cui le stesse persone si trovano contemporaneamente schierate al fianco del leader spodestato e al governo con l’usurpatore. Si spellano le mani per il titolare della Sanità, presentato come campione del rigore nella lotta contro il virus, e un minuto dopo per il direttore del giornale che da mesi conduce una campagna virulenta contro il governo proprio in materia di sanità e vaccini, con effetti non secondari quanto ad allarmismo e confusione, ad esempio su Astrazeneca. Salvo poi ovviamente imputarne al governo – ma mica al titolare della Sanità: sempre al presidente del Consiglio e al generale Figliuolo – le conseguenze. Vedi l’incessante campagna contro gli open day prima e ora sui vaccini in generale, culminata nella prima pagina di giovedì in cui, distorcendo il senso delle affermazioni di Anthony Fauci, il Fatto arrivava a sparare in prima pagina la notizia che la contagiosità sarebbe identica per vaccinati e non vaccinati (il punto è che i vaccinati si infettano molto meno, e ovviamente, se non si infettano proprio, non possono essere nemmeno contagiosi).
Non per caso, sul palco di quella stessa festa, lo stesso giorno, subito dopo sarebbero saliti Roberto Speranza e Romano Prodi. E forse non è un caso nemmeno che tra i più calorosi sostenitori di Letta vi sia proprio Prodi, il leader del centrosinistra capace di portare l’arte della fuga – e del successivo, vendicativo ritorno – a un livello di perfezione tale da rappresentare un modello. Un modello dagli altri spesso maldestramente imitato, ma mai raggiunto.
Il vero Farinata degli Uberti del centrosinistra è infatti proprio lui, il Professore. Non per niente, proprio come il grande capo ghibellino con Dante, così il Farinata dell’Ulivo, dinanzi al pellegrino Letta appena richiamato in servizio da tutti i dirigenti del partito, avrebbe ben potuto dire: “Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, sì che per due fiate li dispersi”. E in fondo qualcosa del genere deve avergli detto, se è vero che è stato lui a metterlo in guardia dagli infidi capicorrente, suggerendogli di scartare la sera stessa della sua elezione, rilanciando in tv la proposta di legge elettorale maggioritaria. Scriveva Antonio Gramsci in una lettera dal carcere che il decimo canto dell’Inferno non è però solo il canto di Farinata, perché rappresenta due drammi: quello di Farinata e quello di Cavalcante. Condannati a vedere nel futuro solo oltre un certo limite, ignari dunque del presente, “Farinata, sentendo parlare fiorentino, ridiventa l’uomo di parte, l’eroe ghibellino: Cavalcante invece non pensa che a Guido”.
Per i digiuni di letteratura italiana, devo ricordare che Guido è Guido Cavalcanti, figlio dell’anima dannata, poeta e amico di Dante. Per gli appassionati di storia del comunismo, che la lettera di Gramsci si inserisce in uno scambio che sembra assumere anche la valenza di una comunicazione in codice con il partito (ne hanno scritto Angelo Rossi e Giuseppe Vacca nel saggio “Gramsci tra Mussolini e Stalin”, pubblicato nel 2007 da Fazi), con cui il prigioniero farebbe capire di rifiutare il ruolo di Farinata, l’oppositore inflessibile, eroe e martire della lotta contro il regime, e sarebbe invece assai preoccupato per le sorti della sua creatura politica (oltre che, verosimilmente, dei suoi famigliari), ribadendo un dissenso impossibile da comunicare altrimenti, tra le spire della censura carceraria e quelle dello stalinismo ormai dominante.
Ma questa è solo una divagazione, che non ha nulla a che vedere con le vicende della politica attuale, con tradimenti e messaggi in codice di oggi, tra chi ha fatto della doppiezza un’arte e chi quell’arte ha cercato di insegnare, non sempre con successo, ai propri sodali, scudieri e alleati. E s’elli han, quell’arte, male appresa, non potete immaginare quanto ciò tormenti gli innumerevoli Farinata che ancora oggi, ai bordi del Transatlantico di Montecitorio, tra i divani dei talk show, nelle sale d’attesa dei ministeri, solo attendono l’occasione giusta per levarsi ancora una volta dal loro letto di dolore, profetizzando sciagure sugli indegni successori.