Una strana olimpiade
Spalti vuoti, tremori e smorfie di grandi atleti Com'è triste Tokyo 2020
"È già languore infetto. Mannaggia".
Che pena Djokovic e i russi, che disdetta l’improvvisa goffaggine di Simone Biles. E poche settimane dopo le illusioni degli Europei di calcio, è già languore infetto
Va bene la pandemia, ma giochi olimpici così tristi non si ricordano. Non parlo dei risultati, del medagliere, delle aspettative legittime e dell’euforia di chi ha avuto l’oro, e l’argento e il bronzo, accompagnato dal coro dell’ammirazione, com’è giusto. Parlo di quel che emerge di Tokio dalle immagini in diretta, quegli spalti vuoti, ancora vuoti, di nuovo vuoti, e quel caldo umido bestiale.
Ho visto in Novak Djokovic, da anni numero uno e sublime atleta e geometra del tennis, uno scheletro bagnato, un volto pieno di fatica, occhi smarriti, gambe insufficienti, il sudore di cui è sempre stato parco arrivato come un segno di mestizia e di decomposizione tra un colpo e l’altro di una imprevedibile sconfitta del supersoldato croato. Mamma mia, che pena. E va bene che ha esagerato con due partite al giorno, che ha preteso troppo. Ma non era così diverso il vincitore, Alexander Zverev, che giocava benissimo ma sotto l’impulso della sofferenza fisica e psichica, fino al pianto dirotto, inarrestabile, per quella vittoria nel fango contro un mito e un amico.
D’altra parte l’incedibile mago del gioco brutto ma efficace, il tennista dostoevskiano Daniil Medvedev, l’aveva detto: al secondo set pensavo che forse avrei vinto, forse sarei morto (sotto i colpi della calura maligna e del vapore umido in quegli orari pazzeschi, tutti prigionieri della bassa pressione atmosferica e di un contesto da collasso). E che pena gli atleti russi costretti a nascondere l’identità sotto un simbolo olimpico generico privo di riferimenti nazionali a cancellare l’onta del doping. Una tortura cinese, anzi, giapponese. Che disdetta l’improvvisa goffaggine di Simone Biles, ginnasta unica costretta allo smacco dagli psichismi dell’inquietudine e dalle insicurezze del carattere. Che pena per Naomi Osaka e per le liti incomprensibili, per i risentimenti nelle squadre, per le accuse e le ritorsioni. Ultima la medaglia di consolazione al canottiere infetto, tra le notizie meste.
Mi si dirà che c’è poi un’Olimpiade di profondo godimento ludico, ci sono cose che vanno benissimo in tutti quegli sport diversi e giocosi che scavano nicchie universali di attenzione. Che l’atletica rinnova il gusto classico e darà luogo a prodigi, quelli soliti e altri ancora, nel salto, nella corsa. Certo, ma resta un senso di vuoto un po’ luttuoso, resta quell’ipoteca di una occasione già rinviata di un anno e poi trasformata in grande evento in un mondo che adora la chiacchiera sportiva, premia la grandezza atletica, ma guarda questo Tokio 2020, con la data farlocca a ricordare il ciclo interrotto dalla malattia, con un fondo di malinconia. Non ci voleva.
La coralità, la socialità espansa di un grande raduno eroico che segna il tempo, come una volta in Grecia nominava gli anni, era una grande risorsa putativa, e in certo senso tuttora lo è, per ovviare alla logica di isolamento, di antieroica fuga dal virus, di mascheramento distanziato di tutte le relazioni umane. Forse è normale che nelle circostanze di oggi sembri un’occasione che si sciupa, si contrae nella smorfia di Nole, nei tremori e nelle caratterialità di grandi atleti, forse sì, era inevitabile. Poche settimane fanno la differenza: gli Europei di calcio hanno avuto la fortuna degli stadi pieni, o mezzi pieni, e di un tempo della competizione che coincideva con l’illusione liberatoria solita di inizio estate. Poco dopo, è già languore infetto. Mannaggia.