Scommesse sul futuro di Draghi: al Colle o a Palazzo Chigi?
Pragmatico, competente, europeista: è il meglio che poteva capitare all’Italia per chiudere con la pandemia e ripartire, arginando il populismo. Un girotondo
Mario Draghi è il meglio che ci poteva capitare, su questo c’è unanimità nei giudizi che raccogliamo in questo valzer di opinioni sull’uomo non-figlio-di-papà (senz’offesa per i figli di papà) che è planato su Palazzo Chigi ponendo fine, per fortuna dell’Italia, alla stagione dell’incompetenza e dell’improvvisazione. Draghi, come l’amore, è eterno finché dura ma il “draghismo” (lemma già codificato in Treccani) gli sopravvivrà. E allora questo bagaglio di pragmatismo ed europeismo, che ha consentito agli italiani di tornare a credere nelle superiori virtù di competenza e merito, potrà rivelarsi assai utile ai futuri presidenti del Consiglio. Ma intanto, per Draghi, quale futuro?
Un premier senza alternative. La versione di Molinari
"Non esistono alternative alla permanenza di Mario Draghi a Palazzo Chigi”, parla così al Foglio il direttore della Repubblica Maurizio Molinari. La questione è semplice: il dopo Draghi è Draghi. “I motivi sono due: la sconfitta della pandemia e la ricostruzione economica, che sono alla base dell’incarico conferito dal presidente Mattarella, rappresentano una missione alla portata di un unico uomo, Draghi. Nessun altro leader sarebbe in grado di mettere a segno questi obiettivi nei tempi stabiliti dal Recovery plan. La credibilità del premier costituisce la migliore garanzia per la Commissione europea e per la stabilità nel percorso delle riforme. C’è poi il punto macro: in Europa l’Italia resta una terra di frontiera tra populismo e stato nazione. Siamo un paese in bilico, il populismo è molto indebolito rispetto al 2018 ma non è sconfitto, lo dimostrano le agitazioni dei No pass e No vax. Non siamo ancora in una situazione di normalità. Il garante per il non ritorno dei populisti è Mario Draghi”.
Draghi è un leader moderno? “Senza dubbio, e il tratto più spiccato della sua modernità è la competenza. Draghi è un grand commis dello stato, è un civil servant, è l’uomo che meglio di tutti sa far funzionare la macchina dello stato per vincere le sfide più urgenti, ripartenza economica e campagna vaccinale. A partire dalla Brexit, abbiamo appreso che oggigiorno per modernità si intende la capacità dello stato nazione di affrontare i problemi reali grazie ai quali il populismo prolifica. Le disuguaglianze, la corruzione politica, la carenza di rappresentatività delle istituzioni democratiche sono problemi ancora aperti”.
Con Draghi a Palazzo Chigi, è possibile un Mattarella-bis? “Da cittadino mi auguro di sì. Di fronte alla sfida del populismo, abbiamo bisogno di una guida saggia e responsabile. Sin dal 2018, con il tentativo riuscito di integrare le forze populiste nell’alveo costituzionale, Mattarella ha dimostrato il più alto senso dello stato. Per affrontare l’emergenza pandemica il presidente ha chiamato l’unica persona in grado di gestire la più grave crisi dal secondo dopoguerra”.
Lo stile Draghi, la sua asciuttezza pragmatica sono destinati a influenzare gli altri protagonisti della politica? “Il mio augurio è che ciò avvenga. I tre ministri che fino a questo momento si sono dimostrati più efficaci ed efficienti nella gestione del governo hanno fatto proprio lo stile Draghi. Giancarlo Giorgetti ha avuto un ruolo decisivo per tenere insieme la compagine governativa sulla riforma Cartabia, eppure non se n’è vantato né ha rilasciato interviste clamorose. Anche Luigi Di Maio è stato strategico per colmare le distanze tra Draghi e Conte ma non ha puntato a incassare il risultato sul piano mediatico. E poi Vittorio Colao, il più esposto sul fronte dell’innovazione tecnologica, lavora tenendo sempre un profilo basso. C’è un effetto domino dello stile Draghi”.
Tra i partiti chi trae il maggior beneficio dalla presenza di Draghi a Palazzo Chigi? “Tutti i partiti di maggioranza traggono giovamento dall’effetto Draghi perché la percezione collettiva è che il premier sia fattivamente impegnato sia sul fronte della pandemia che della ricostruzione economica. Non è solo una questione di sondaggi, basta parlare con le persone. Il fatto che l’unico partito di opposizione, FdI, sul Pnrr abbia optato per l’astensione, è la conferma che la direzione di marcia è quella corretta. Anche Lega e Cinque Stelle, che fanno i conti con un tassello identitario populista, vedono aumentare i conflitti interni. L’anima no vax o no pass dei leghisti confliggerà sempre di più con Draghi, come l’anima populista dei grillini”.
E il Pd? Non abbiamo ancora parlato del Pd. “Nel Conte2 il Pd ha contribuito a evitare l’implosione dello stato nazionale affermandosi come interlocutore strategico di Mattarella. Oggi dovrebbe elaborare una visione dello stato nazionale emancipandosi dalla struttura correntizia che rema in senso opposto”. Tuttavia, pochi giorni or sono abbiamo visto una platea in ovazione di fronte agli insulti di un giornalista nei confronti del premier. Quella platea non era né leghista né grillina… “Vero, in Italia il populismo ha due genesi, una di destra, di carattere etnico nazionale, e una di sinistra, affezionata al concetto di antistato. E’ così che la frangia più estrema dei grillini s’incontra con quell’applauso agghiacciante. La sfida è isolare e sconfiggere istanze protestatarie”.
Con il caos tunisino, l’immigrazione sarà il prossimo terreno di scontro dopo la giustizia? Matteo Salvini ha chiesto un incontro al premier insieme al ministro Luciana Lamorgese. “L’immigrazione è il tallone d’Achille di questa maggioranza perché l’Italia, da sola, non può farcela e l’Europa è drammaticamente in ritardo. Oltre a discutere dei criteri di ammissione, dovremmo chiederci come integrare i migranti ma questo dibattito non è neanche iniziato perché imporrebbe un confronto sull’identità nazionale. Quando alla fine dell’Ottocento gli anglosassoni decisero di aprire le porte della California ai cinesi e del New England a cattolici ed ebrei erano consapevoli che sarebbero diventati minoranza nel paese che avevano scelto. Così hanno gettato i semi della più grande potenza democratica del mondo”.
La gestione delle cose è il suo forte
A sentire Daniele Manca, vicedirettore del Corriere della Sera, “al di là degli auspici che lasciano il tempo che trovano, il passo impresso dal governo Draghi è qualcosa a cui il paese non era abituato. Abbandonare l’approccio pragmatico e fattivo di un premier capace di individuare le priorità sarebbe un errore. Finalmente ci siamo abituati a ragionare per priorità”. In che senso? “Draghi è un uomo di gestione, una persona abituata ad amministrare, a fare le cose. I passati governi ci hanno abituato negli anni a un ruolo di indirizzo, non di gestione. La sua biografia parla per lui: ha studiato con Modigliani e per tutti è il professore ma tra il 1984 e il 1990 Draghi è direttore esecutivo della Banca mondiale, poi viene chiamato da Guido Carli, ministro del Tesoro, su suggerimento di Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca governatore della Banca d’Italia, a ricoprire il ruolo di direttore generale in via XX Settembre. La presidenza della Bce non è far tutto ma prendere poche decisioni ogni mese sulla base di una gerarchia delle priorità. Il discorso delle priorità è fondamentale”. Un nuovo modus operandi che spiazza i partiti. “Certo, i partiti non sono abituati a questo modo di organizzare il lavoro. Draghi ha la capacità di non farsi influenzare dal dibattito, presunto o reale, nel paese. Lui affronta un problema per volta, che poi trovi o meno la soluzione non sta a me dirlo. Agendo di tal guisa, evita l’errore fatale commesso da Donald Trump, quello di aprire molteplici fronti di lotta nello stesso tempo. Anche la crisi del governo gialloverde, con Salvini al Papeete, arrivò al culmine di diverse crisi e fratture che si erano accumulate nel corso dei mesi. La cifra stilistica di Draghi è che si procede una priorità alla volta, e a trarne vantaggio, da questo punto di vista, è il partito più pragmatico nel governo, vale a dire la Lega che non è solo Salvini ma anche Zaia, Fedriga, le amministrazioni del Nord produttivo e industriale. Il partito più a disagio invece è il Pd perché ha un nuovo leader impegnato nel tentativo di dare una nuova identità al partito. Draghi si cura poco dell’identità e molto delle cose da fare”.
Il piglio decisionista è emerso anche in occasione delle nomine. “La gestione è il suo forte, così ha scelto manager con un curriculum all’altezza. Ha spiazzato i partiti? Vero. Ma la domanda da porsi è: in questi anni i partiti hanno coltivato una classe dirigente di manager e professionisti di area che fossero indipendenti pur condividendo degli ideali? La risposta è negativa. Per Draghi è stato facile opporre dei profili manageriali più forti, in questo modo ha anche innalzato gli standard di riferimento e i partiti potranno trarne uno stimolo utile per il futuro”.
La frase “chi non si vaccina muore” è apparsa stentorea, quasi una rottura rispetto alla sobria asciuttezza a cui il premier ci ha abituato. C’è il rischio di far sentire emarginati i cittadini che, pur non essendo No vax, nutrono dubbi e paure? “Draghi è una persona normale, ha parlato in modo naturale, ha detto quello che pensa. E’ vero che chi è diffidente può sentirsi turbato ma è turbato anche chi vede le persone morire perché non si sono vaccinate”.
Un suggerimento per il premier? “Fossi in lui, ad agosto mi prenderei la libertà di parlare direttamente agli italiani per spiegare che, oltre il rumore di fondo provocato dalle polemiche su giustizia e green pass, c’è un governo che sta lavorando alacremente per capire se si potrà riprendere con la didattica in presenza a settembre e se i lavoratori non vaccinati potranno entrare in fabbrica, a quali condizioni”. Con Draghi a Palazzo Chigi, arriverà un Mattarella bis? “E’ lo scenario più probabile. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, se i partiti e il Parlamento chiedessero una proroga, il presidente difficilmente potrebbe sottrarsi. Si ripeterebbe allora quanto accaduto con Giorgio Napolitano. Mattarella non lavora per una proroga e crede genuinamente alla necessità di individuare una figura alternativa, tuttavia è un uomo delle istituzioni, un presidente responsabile guidato dalla Costituzione”.
Ha eliminato il potere di veto dei singoli partiti
Luca Ricolfi risponde da Stromboli dove trascorre, come ogni anno, la sua estate al riparo dai rumori del mondo. “Qui non arrivano neppure i giornali, ho una visione parziale di ciò che accade. Sebbene io sia ostile ai governi di unità nazionale, penso che sia bene che il premier resti dov’è: lo scenario alternativo, con un Draghi al Quirinale e il Recovery plan lottizzato tra i partiti, è terrificante”. Immagina un possibile Mattarella bis? “Mi auguro di no, la proroga è una brutta prassi. Per una volta bisognerebbe eleggere un presidente della Repubblica che vada bene a tutti. Se fosse Casini, che non è il mio candidato, nessuno potrebbe cantar vittoria. La questione, ad ogni buon conto, non mi appassiona particolarmente, trovo molto più interessante l’asse Meloni-Cacciari che si è venuto a creare sui vaccini. Lo dico da vaccinista, sono vaccinato e consiglio a tutti di immunizzarsi, tuttavia rifiuto la criminalizzazione di chi coltiva dubbi su vaccini di cui non conosciamo gli effetti nel lungo e medio periodo, soprattutto perché alcuni, quelli a mRna, Pfizer e Moderna, sono stati realizzati con una tecnologia innovativa”.
Professore, io volevo chiederle di Mario Draghi: il premier, dunque, è bene che resti a Palazzo Chigi? “Certamente sì, anche quando non sono d’accordo con lui ne apprezzo il ruolo di guida, abbiamo bisogno di una guida autorevole soprattutto in questa fase di ripartenza nazionale e dopo una lunga stagione contrassegnata da un personaggio imbarazzante come Giuseppe Conte, un burattino guidato unicamente dal proprio narcisismo”. La tocca piano… “Dico quello che penso. L’asse Meloni-Cacciari però è interessante perché è figlio anche della cattiva informazione sui vaccini. Esistono dati di fondo supportati dalla scienza che vengono ignorati dai media: ad esempio, sugli effetti dei vaccini nel periodo medio e lungo. Quando si cominciano a vaccinare le persone sotto i 25 anni, molti studiosi ritengono che sia un atto vantaggioso dal punto di vista collettivo ma non individuale. Le reazioni avverse esistono. E poi l’immunità di gregge è un mito: non esiste alcuna possibilità di raggiungere l’immunità, neanche a fine anno. La matematica dell’immunità di gregge è complicata e nessuno ha il coraggio di farla parlare. Con un virus che ha un indice di replicazione pari a 7, come nel caso della variante Delta, l’immunità si raggiunge con l’87 percento della popolazione immunizzata ma già solo gli under 12 sono intorno al 10 percento. Queste formule peraltro sono calcolate su vaccini sterilizzanti ma, come sappiamo, i vaccini attualmente in uso non annullano il pericolo di un nuovo contagio”. Professore, il 99 percento delle vittime di Covid-19 negli ultimi sei mesi non si era vaccinato. “Le ripeto, io sono vaccinato e consiglio a tutti di vaccinarsi ma vedo le questioni sul tavolo e diffido di chi si ritiene depositario di qualche verità rivelata. La scienza non vive di certezze ma di dubbi. Mi sono vaccinato perché ritengo che i benefici superino i costi ma anche il legislatore, nel bilanciamento dei valori in gioco, dalla difesa della salute alla libertà di circolazione delle persone, dovrebbe tener conto delle diverse sensibilità e del sacrosanto diritto di nutrire dubbi, senza ostracizzare chi rifiuta di vaccinarsi pur non essendo un No vax”. Deduco che lei non abbia apprezzato la frase “chi non si vaccina muore”. “Non so se sia stata un’uscita voluta ma no, non l’ho apprezzata. In Italia i No vax sono il 2 per cento della popolazione, poi c’è un ulteriore 15 per cento composto di persone esitanti. Esiste pure un partito delle mamme che a settembre, quando si tornerà a scuola senza che nelle aule e sui mezzi pubblici sia cambiato alcunché e qualcuno tirerà fuori l’obbligo vaccinale per gli studenti, si farà sentire. Non si tratta di facinorosi ma di persone legittimamente preoccupate”.
Qual è l’impatto del fattore Draghi nel sistema partitico? “Ha eliminato il potere di veto dei singoli partiti. I partiti fanno dichiarazioni identitarie come sul ddl Zan, pensano già alle elezioni mentre lui governa tranquillo. Vedremo che cosa verrà fuori sulla giustizia: io sono referendario e mi dispiacerebbe se una riforma già debole venisse ulteriormente depotenziata. Quanto ai partiti, il danno maggiore lo traggono i Cinque Stelle e il vantaggio maggiore il partito di Giorgia Meloni. FdI è stabilmente sopra il 20 per cento dei consensi in tutti i sondaggi, le posizioni di Meloni sono quasi sempre meno urlate e meno estremiste di quelle di Matteo Salvini, la leader di FdI punta al centro e sta riuscendo nella sua impresa. Fa un’opposizione costruttiva. Il leader della Lega invece è riuscito a mondarsi un po’ dei cattivi attributi che gli venivano gettati addosso ma quando lascia partecipare i suoi parlamentari alle piazze no vax mina la propria credibilità. Di questo passo, rischia di apparire più facinoroso di Meloni che è all’opposizione. Aggiungo poi che su sbarchi e Green pass non otterrà nulla”.
Che mi dice delle politiche del premier? “Penso che la politica in materia sanitaria sia sbagliata: pochi tamponi, nulla sulle scuole, nulla sui trasporti. Sono gli stessi errori di Conte. I tamponi sono l’unico strumento in grado di controllare un’epidemia. Il numero dei decessi ha un’elasticità fortissima rispetto al numero dei tamponi, e noi continuiamo a farne troppo pochi. Adesso il governo introduce restrizioni soft per poi passare in autunno a quelle hard ma in questo modo la curva si innalza e poi sarà più complicato abbatterla”. Lei che cosa prevede per settembre? “I contagi aumenteranno, tornerà la pressione sugli ospedali sebbene con meno morti grazie ai vaccini”.
Decisionismo, il vero tratto della modernità
Per Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2, in libreria con un libro, edito da Mondadori, dedicato a Ronald Reagan, “non sta a me dire se Draghi debba restare a Palazzo Chigi o trasferirsi al Quirinale. Io dico che fa bene dov’è e farebbe bene anche sul Colle più alto. E’ una garanzia di prestigio internazionale, di affidabilità per i mercati, non riesco a individuare una figura comparabile nell’Italia di oggi, se non andando indietro nel tempo, forse a personalità come Giovanni Spadolini e, in parte, Silvio Berlusconi. Io faccio giornalismo televisivo e quando ci sono i vertici internazionali si nota subito che Draghi è in grado di dettare la linea a livello europeo. Tra l’altro, con la conclusione della parabola merkeliana in autunno e in assenza di un successore all’altezza della Cancelliera, Draghi potrebbe diventare il punto di riferimento di tutta l’Europa. Detto questo, ha lo stile che si confà a un presidente della Repubblica. Da mesi le agenzie di rating sono tranquille rispetto all’Italia, lo spread si è abbassato, il Recovery è stato approvato dall’Europa, se si arriva a una riforma della giustizia condivisa sarà un’altra freccia per il suo arco”. Eppure i Cinque stelle sembrano abbastanza a disagio in questo esecutivo, con consensi in calo. “Sono il partito che soffre maggiormente perché Draghi è molto lontano dalla loro filosofia. I Cinque stelle erano portatori di una visione antagonista della società mentre Draghi è un riformatore. La Lega invece trae vantaggio dalla permanenza nel governo perché Draghi finisce per essere una sorta di passpartout verso un riconoscimento europeo e internazionale. Si avvantaggia anche Renzi, il vero artefice dell’operazione Draghi a Palazzo Chigi”.
Qual è la cifra del Draghi premier? “Ha un piglio decisionista che è il vero tratto della modernità. Oggi non basta la qualità delle decisioni ma serve anche la tempestività. Lo abbiamo sperimentato sui vaccini: la sostituzione di Arcuri con Figliuolo è stata decisiva. E poi Draghi presta maggiore attenzione al mondo produttivo, a imprese e lavoratori. Noto poi una maggiore sobrietà nella comunicazione, ciò che serve al paese. Sobrietà. Un conto sono le leadership di partito che si nutrono di una comunicazione costante, un conto sono le leadership di governo che devono parlare con i fatti”.
La rapidità e il pragmatismo
“Io sono del partito di Draghi a Palazzo Chigi”, scandisce risoluto il vicedirettore della Repubblica Francesco Bei. “Draghi è l’uomo che ha firmato la fideiussione con l’Europa. E’ vero che il contratto sottoscritto con Bruxelles sotto forma di Recovery plan vale fino al 2026, qualunque presidente del Consiglio sarebbe costretto ad attenersi al medesimo programma, ma sappiamo che tutto può essere rimesso in discussione in un attimo. La guida di Draghi dal Quirinale non è la stessa che da Palazzo Chigi. Abbiamo una maggioranza talmente eterogenea che l’unico punto di equilibrio è Draghi: non c’è in Italia una personalità che possa tenere insieme Speranza e Salvini”. E un Mattarella-bis? “Mattarella sarebbe la scelta più semplice, garantisce lo status quo. Il problema è che l’interessato non mi sembra propenso a cambiare idea. In occasione del 130esimo anniversario della nascita di Antonio Segni, Mattarella ha vergato parole definitive su un possibile reincarico. Il no alla proroga del mandato lo ha teorizzato da costituzionalista. I partiti dovranno mettersi d’accordo su una formula neutra, e non è detto che sia un male. Una mediazione tra la destra e la sinistra, in una fase in cui l’Italia è così divisa, può essere uno sforzo lodevole”.
Quali sono i tratti distintivi di Draghi premier? “La rapidità e il pragmatismo. Dopo i traccheggiamenti dei governi precedenti, soprattutto del Conte2, abbiamo visto un governo che ha cambiato passo. Non ci dimentichiamo che i capi del Pd, negli ultimi sei mesi del governo giallorosso, erano angosciati per l’immobilismo dell’esecutivo. Era un governo paralizzato. Nicola Zingaretti e gli altri chiedevano a Conte una ‘verifica’, una ‘ripartenza’… Draghi ha segnato un cambio di passo su dossier scottanti, come la giustizia penale. E poi su green pass, scuola e vaccini, nonostante le obiezioni della Lega, il governo avanza come un treno”. Anche sulle nomine il premier ha usato la mano pesante. “Il caso emblematico è Cdp, l’istituzione che negli ultimi anni è stata una delle principali leve del potere reale dei Cinque stelle. E’ stata il driver di scelte decisive per il paese al punto di essere equiparata a una nuova Iri. Per nominare Dario Scannapieco al posto di Fabrizio Palermo, il premier non ha chiesto il permesso a nessuno. Idem sulla Rai: nel ruolo di ad ha scelto un uomo, Carlo Fuortes, che ha dato una nuova vita al Teatro dell’Opera di Roma sull’orlo della fossa”. Si può dire che con il premier si è recuperato il primato della competenza? “Assolutamente sì. Se ti circondi di numeri uno, diventa sfidante anche per i partiti. Crei un benchmark a cui, a cascata, l’intero sistema politico deve adeguarsi. Se pensi che i gialloverdi avevano messo un personaggio come Mimmo Parisi a capo dell’Anpal, capisci che siamo su un altro pianeta…”.
Come se la passano i partiti con Draghi a Palazzo Chigi? “Sulla carta il partito che più trae vantaggio dovrebbe essere quello che per primo ne ha condiviso l’agenda, il Pd. Il problema è che il Pd da una parte sposa Draghi, dall’altra insegue l’alleanza organica con il M5s. E’ impossibile beneficiare della luce di Draghi se flirti con il populismo giustizialista pentastellato. Se ne avvantaggia allora il partito che ha il monopolio dell’opposizione, FdI. Salvini vive una contraddizione ancora più grande di Letta: è costretto a tenere un piede dentro la maggioranza e uno fuori per la paura di farsi rubare troppi voti da Meloni. Il leader della Lega mi sembra sempre più lontano dalla linea Zaia-Giorgetti. Il modo per arrestare la caduta di consensi, per Salvini, non è distanziarsi da Draghi ma diventare più draghiano di Draghi. Il grande elettorato di centrodestra del Nord si fida di Draghi, vede nel premier una garanzia che l’Italia resti agganciata all’Europa e l’economia cominci a correre”.
Che mi dice delle parole di Travaglio sul premier? Lesa maestà? “In un paese libero e democratico Travaglio ha diritto di dire quello che vuole, peraltro quelle offese le scrive ogni giorno. Vedo però una contraddizione nell’atteggiamento dei militanti di Articolo Uno che sono esplosi in un’ovazione dimenticando forse che il ministro Speranza è uno dei pilastri di questo governo. Non si può stare nella maggioranza con Draghi e poi applaudire chi dice che Draghi non capisce un c…”. Non fa una piega.
L’unico uomo forte rimasto in Europa
Per Nicola Porro, vicedirettore del Giornale e conduttore di “Quarta Repubblica” su Rete4, “è bene che Mario Draghi resti a Palazzo Chigi. E’ il meglio che possiamo aspettarci perché Draghi non è figlio di questo Parlamento. Per lui magari suona come una deminutio, perché in effetti potrebbe aspirare alla prima carica dello stato, ma con il Recovery plan l’Italia si indebita per 180 miliardi e io vorrei che a gestire questa montagna di soldi non fossero personaggi più interessati al proprio futuro che a quello degli italiani”. Va detto che il presidente Sergio Mattarella ha chiarito, anche recentemente, di non essere disponibile per un secondo settennato. “Tutti i presidenti della Repubblica, escluso Cossiga, avrebbero voluto il bis a dispetto degli annunci ufficiali. Io penso che sarebbe un gesto di pigrizia istituzionale incomprensibile: perché dobbiamo prolungare? Perché i partiti non dovrebbero indicare un’altra figura?”. Forse siamo a corto di riserve della Repubblica? “E’ la più grande finzione della Prima, Seconda e Terza Repubblica. Con questa storia delle riserve ogni parte cerca di tutelare il proprio establishment. La destra un candidato ce l’ha, si chiama Antonio Martino”.
Torniamo a Draghi: un giudizio su questi mesi? “Il premier ha lavorato in modo eccellente, a mio giudizio ha commesso soltanto due errori: ha trascurato la questione Rai con la marginalizzazione di FdI, e poi ha usato un accento scarsamente draghiano sui vaccini”. In che senso? “Non si può dire: chi non si vaccina muore. Anzitutto, non è vero. Ma la cosa grave è la rottura, per la prima volta in assoluto, di un linguaggio secco, rigoroso, tipicamente draghiano. La gente confonde quell’uscita sui vaccini con il ‘whatever it takes’ ma non c’entra nulla: dietro il ‘whatever it takes’ c’era la leva monetaria che Draghi, da presidente della Bce, poteva attivare per avviare una politica monetaria espansiva, un pugno in faccia ai tedeschi. Con questa frase sui vaccini invece Draghi ha dato uno schiaffetto a Salvini senza risolvere un bel niente”. Che c’entra la Rai? La mancata elezione dell’ex consigliere Giampaolo Rossi, in quota FdI, dal cda Rai è stato un atto del Parlamento. “Ciò non cambia la responsabilità politica del premier che evidentemente ha sottovalutato la questione. La Rai non è più quella di un tempo: i partiti non decidono più le linee editoriali delle reti, le linee si autoplasmano in funzione dei governi qualsiasi essi siano. Oggigiorno, sul piano politico, la Rai serve essenzialmente per lucidare l’ego di qualche colonnello di serie B che aspira a un sonoro nei telegiornali. L’esclusione però dell’unico partito di opposizione è un fatto politicamente rilevante, e il premier ha il dovere di ascoltare e dare rappresentanza anche alle minoranze, tanto più se è un premier non designato dal popolo”. Insomma, la frase sui vaccini era stonata... “Ho il massimo rispetto per posizioni come quelle di filosofi come Cacciari e Agamben, chi le considera fuori dal perimetro della ragionevolezza sbaglia. Rivendico il diritto di mettere in dubbio le decisioni del governo, chi non condivide non può essere delegittimato o liquidato come un No vax. Posso dire che è un’esagerazione sbagliata e controproducente imporre il green pass per bar e ristoranti? Una leadership tecnica può diventare una grande leadership politica se è in grado di coinvolgere tutti e di dare rappresentanza a tutti”.
Le nomine su Dis, Cdp, Commissario all’emergenza, Protezione civile, Rai sono stati strappi necessari? “Le giudico operazioni ben fatte, nella sfera di competenza del presidente del Consiglio. Il Draghi decisionista a me piace, pochi annunci e molti fatti. Dico però che deve coltivare la sensibilità politica per far sentire le minoranze incluse e non ostracizzate. Serve qualcuno che gli spieghi la complessità di questo paese, quel qualcuno non può essere Bruno Tabacci”.
Che mi dice della riforma Cartabia? “Anzitutto, non la definirei una riforma ma un aggiustamento del pasticcio combinato da Bonafede. Il testo Cartabia è come dare un’aspirina a un malato terminale. L’unica riforma della giustizia passa per i sei referendum promossi da Lega e Radicali”. Come giudica l’impatto di Draghi sui partiti? “Ha svuotato Forza Italia che è il vero partito del premier. FI è diventata istituzionale e centrista, Draghi ne è il leader naturale. Tuttavia, c’è un ostacolo che si chiama Silvio Berlusconi, il più lucido di tutti e assai poco disposto a farsi scippare il partito. Va anche detto che, a differenza di Conte e Monti, Draghi ha un equilibrio psicologico ben saldo ed è abbastanza immune al narcisismo. La sua vera forza è che per lui il passaggio a Palazzo Chigi, dopo tali e tanti incarichi, non è un miracolo com’è stato per Conte e Monti”. Che effetti vede sulla Lega? “Il partito di Salvini ha cambiato improvvisamente il suo quadro di alleanze europee. Non ha più in agenda la critica feroce all’Europa, l’Italexit etc. Salvini non può più prendersela con l’asse franco-tedesco perché quell’asse non esiste più. A settembre si chiude l’èra Merkel, Macron sa che non lo rieleggerebbe neppure il suo condominio, il Regno unito è uscito dall’Ue, così l’unico uomo forte resta Mario Draghi. Oggi Draghi è l’Europa. L’Europa è Draghi insieme a pochi altri comprimari tra cui un olandese di nome Timmermans che è una specie di Greta con qualche anno in più”.
Occasione per i partiti, posto che vogliano sfruttarla
Per Alessandra Sardoni, saggista e inviata del Tg La7, “è difficile azzardare pronostici, ciò che conta è che Draghi sia in una delle due caselle. Quirinale o Palazzo Chigi? L’importante è che Draghi resti. Serve un elemento di garanzia esterna, verso gli impegni presi in Europa, e interna, data l’esigenza di tenere insieme una maggioranza larga. In ogni caso, non riesco a immaginare un Draghi eletto presidente della Repubblica solo da destra e Pd. Servirebbe un ‘metodo Ciampi’, con un accordo blindato che ne assicuri l’elezione al primo turno. In assenza di queste condizioni, è bene che il premier possa raccogliere il frutto del lavoro svolto fino a oggi e possa sbrogliare matasse che vanno aggrovigliandosi. Penso, per esempio, ai pessimi segnali sul fronte della scuola, forse il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi si è rivelato l’anello debole dell’esecutivo. La seconda matassa è la giustizia: serve un compromesso ma se il compromesso genera una riformina troppo blanda diventa un’occasione perduta. Insomma, se Draghi riuscisse a chiudere la legislatura con la sua autorevolezza e la sua abilità politica, sarebbe un bene per l’Italia”. E’ ipotizzabile la proroga del mandato di Mattarella? “Dal Quirinale hanno sempre negato e sappiamo che anche Napolitano smentiva puntualmente, in entrambi casi c’è una sincerità nella smentita. Il punto sono le condizioni che maturano dopo. Vedo numerosi pretendenti ma non vedo una maggioranza possibile e reale in grado di convergere su un nome”.
Il premier ha cambiato gli stilemi della comunicazione pubblica? “Intanto ha sgombrato il campo da un elemento di propaganda. Ha potuto farlo perché non deve raccogliere il consenso per un partito, com’era per Giuseppe Conte. Non deve ribadire per ore le virtù del modello italiano, le mirabili imprese svolte, non deve convincere il mondo di essere il più bravo della classe. Draghi va dritto al nocciolo della questione. Racconta quello che fa. La sua è una piacevole asciuttezza stilistica, per noi inviati una manna dal cielo. E poi il premier ha sgombrato l’idea che si governi con la comunicazione, mantra del governo giallorosso e, ancor prima, dei gialloverdi e di Matteo Renzi. Questa attitudine al risultato, ovviamente, è croce e delizia perché alimenta le aspettative. Dalla sua, però, Draghi può dire di averle fatte alcune cose, anzitutto il Pnrr e la svolta sulla giustizia rappresentata, simbolicamente, dalla visita con il ministro Marta Cartabia presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere”.
Nella variegata compagine di governo quali partiti soffrono di più? “Un po’ soffrono tutti, Draghi è un’occasione per i partiti a patto che vogliano sfruttarla. La Lega ha la possibilità di guadagnare uno spazio di manovra più ampio, Salvini però dovrebbe fare una scelta chiara, una volta per tutte: se vuoi essere il partito del Nord devi rappresentare anche la parte più pragmatica e illuminata degli imprenditori. La frase sugli under 40 per i quali il vaccino non servirebbe è stata una scivolata, una cosa sbagliata. Il leader della Lega dovrebbe mostrare maggiore responsabilità istituzionale e culturale. Quanto al Pd, la presenza di Draghi potrebbe agevolare un chiarimento interno e una scelta netta sull’idea del paese che si vuole. Invece ciò non accade, il Pd sta inutilmente soffrendo la presenza di Draghi senza una seria riflessione interna”. Il Pd è orfano di Conte? “Un pezzo sì, lo è o crede di avere bisogno dell’ex premier. Lo capisco per Leu, ma che il Pd, il principale partito del centrosinistra, non riesca a immaginare una leadership alternativa mi sembra fuori dal mondo”.
Come ha interpretato la frase di Draghi “chi non si vaccina muore”? “E’ una mossa dettata dalla politique politicienne. Il premier ha mandato un segnale forte e chiaro alla destra e alla frangia grillina estremista. Ha fatto l’antipopulista. In realtà, l’errore del governo è stata l’eccessiva cautela sulla vaccinazione, la scivolata più grande si è vista nella confusione ingenerata attorno ad AstraZeneca: dopo la morte tragica di una ragazza, nell’esecutivo è prevalsa l’emotività mentre altri paesi hanno mantenuto un atteggiamento più freddo e razionale. Quella frase mi è parsa come il tentativo di riaffermare un elemento positivista di razionalità scientifica”.