Il reset è cominciato
Draghi fa benone ai partiti
La (possibile) evoluzione della politica, un buon effetto del governo dell'ex presidente della Bce
Sei mesi fa il premier sfidò la politica a fare “un passo avanti”. Primi risultati: ci suono nuovi leader, ma soprattutto i “numeri due” (Di Maio, Giorgetti) lavorano ogni giorno per archiviare la stagione populista
Sono passati sei mesi tondi tondi da quel 17 febbraio in cui Mario Draghi si presentò di fronte ai deputati del Parlamento più pazzo del mondo per ricevere la sua prima fiducia da presidente del Consiglio. In quel discorso, tra le molte cose, Draghi disse che sarebbe stato un errore considerare il governo nascente come il risultato del fallimento della politica e, sei mesi dopo quell’affermazione, si può provare a capire rispetto a quella tesi se il presidente del Consiglio sia stato un po’ troppo ottimista.
“Nessuno – disse Draghi – fa un passo indietro rispetto alla propria identità ma semmai, in un nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione, ne fa uno avanti nel rispondere alle necessità del paese, nell’avvicinarsi ai problemi quotidiani delle famiglie e delle imprese che ben sanno quando è il momento di lavorare insieme, senza pregiudizi e rivalità”.
Sei mesi dopo si può dire che la considerazione di Draghi non era affatto campata per aria ma era frutto di una previsione che in effetti si è avverata: il governo del presidente, nonostante molti pronostici avversi, ha dimostrato di essere un governo capace non di scavalcare in modo improprio la politica ma di responsabilizzarla rendendola persino protagonista (anche con alcuni eccessi). E in sei mesi di Draghi, se ci si pensa bene e ci si allontana dai dettaglismi per concentrarsi sulla ciccia, in effetti la politica si è rinnovata almeno da due punti di vista diversi.
Da una parte c’è una storia più nota, più alla luce del sole, che è quella riscontrabile osservando le leadership dei vari partiti, che in questi mesi si sono rinnovati a una velocità considerevole. Rispetto a febbraio il quadro è questo. Il Pd ha un nuovo leader (prima Nicola Zingaretti, ora Enrico Letta). Un nuovo leader lo ha anche il M5s (prima Vito Crimi ora Giuseppe Conte). Un nuovo assetto lo ha anche il centrodestra (Lega e Forza Italia lavorano a una federazione). Un nuovo profilo lo hanno anche i partiti del cosiddetto centro (Azione, Italia viva e + Europa si muovono ormai da contenitore unico). E in qualche modo un nuovo profilo lo ha anche Fratelli d’Italia che da mesi cerca (non con molto successo) di presentarsi come una forza di governo più responsabile rispetto alla Lega (sintesi estrema del messaggio: i veri sfascisti sono i leghisti).
La storia meno nota, e forse più affascinante, riguarda invece un movimento meno visibile e più sotterraneo che è quello che riguarda il tentativo dei numeri due dei vari partiti di utilizzare il governo Draghi per provare a far cambiare la rotta dei numeri uno del proprio partito o della propria coalizione. E’ un movimento incessante, quotidiano, perpetuo: non è detto che possa produrre qualche risultato, ma è una delle costanti politiche più interessanti da osservare nel governo Draghi e ci aiuta anche a inquadrare meglio alcune partite future. E’ così per il M5s, dove Luigi Di Maio tenta di utilizzare il suo asse privilegiato con Mario Draghi per spegnere le micce disseminate sul terreno di gioco da Giuseppe Conte. E’ così per il Pd, dove la minoranza del partito, triangolando involontariamente con Matteo Renzi, tenta di utilizzare il tema dell’adesione o meno del Pd all’agenda Draghi per tentare di disinnescare gli eccessi di grillismo presenti ancora nel Pd. E’ così per la Lega, dove Giancarlo Giorgetti tenta di utilizzare ogni giorno il suo rapporto speciale con Draghi per provare a ingentilire il volto del leghismo. E’ così per Silvio Berlusconi che tenta di utilizzare l’adesione momentanea di un pezzo non minoritario del centrodestra all’agenda Draghi per mettere di fronte ai leader della coalizione di centrodestra la loro distanza dal principio di realtà. Ed è così in fondo anche per lo stesso Salvini che tenta di utilizzare l’adesione della Lega al governo Draghi per dimostrare che i veri impresentabili del centrodestra sono quelli che si trovano fuori dal perimetro del governo.
Il governo Draghi doveva essere la tomba della politica, la vittoria della tecnica, la capitolazione della democrazia rappresentativa e invece, nel giro di sei mesi, i partiti, di fronte alla nuova stagione politica, al netto di alcuni capricci che tenderanno a emergere con più forza durante il semestre bianco, hanno rimesso in discussione se stessi, hanno rivisto la propria agenda, hanno ritarato le proprie coordinate. E lo hanno fatto mossi non solo da qualche piccolo calcolo elettorale (l’algoritmo dell’estremismo non si porta più) ma mossi da una consapevolezza impensabile fino a qualche tempo fa: fare di tutto, whatever it takes, non per far propria l’agenda Draghi, sarebbe un sogno, ma per usare la nuova e popolare agenda di governo per cercare di smascherare il populismo degli altri.
A sei mesi dal primo discorso di Draghi in Parlamento, un primo bilancio si può fare. E quando il realismo politico tende ad affermarsi sull’antipolitica è difficile non registrare non tanto una sconfitta, quanto un inaspettato e incoraggiante trionfo della politica. Il reset è cominciato e difficilmente si fermerà qui.