La guerra di Malagò alla riforma leghista dello sport
Vinte le Olimpiadi il presidente del Coni sogna la botta definitiva alla riforma "nefasta" che ha già iniziato a smontare con pazienza
Dedicherà gli ultimi tre anni che gli restano alla presidenza del Coni per smontare definitivamente la riforma dello sport, quella voluta dai 5 stelle e da Giancarlo Giorgetti, quella legge che lui considera nefasta, folle, addirittura suicida per lo sport italiano. È una promessa. Per qualcuno forse una minaccia. Ma lui lo spiega con il sorriso, agli amici, anche in questi giorni in barca, in Sardegna, davanti al mare piatto di Villasimius. Giorni spensierati, dopo le quaranta medaglie vinte a Tokyo. E certo, se inzigato, Giovanni Malagò nega i propositi bellicosi. Almeno quando parla con i giornalisti, che sono impiccioni per mestiere. Mai infatti il presidente del Coni si esprimerebbe così, con tanta nettezza, in pubblico. Opporsi a parole, annunciare battaglia sui quotidiani, lasciar trasparire le proprie intenzioni, non serve a niente. Ben altri santi si sono accorti che non si esorcizza il diavolo con le giaculatorie. Ma poiché Malagò – soffice, etereo, eppure solidissimo – si considera ormai uno che non ha niente da perdere, eccolo allora pronto alla pugna. Sul serio. L’ultima guerra. Quella definitiva. D’altra parte non sono rieleggibile, dice. Al Coni ho finito, aggiunge. Non devo ricercare il consenso, spiega. Ma voglio invece lasciare lo sport italiano più forte di come l’ho trovato.
Ecco. La riforma, dunque. Eterna tenaglia. Finora lui ha lavorato di cacciavite, come si usa dire. Adoperando pazienza, cercando sponde, utilizzando forse il suo talento più nitido e conosciuto, quello di venditore di simpatia: non c’è serratura del potere che possa resistergli a lungo. Lo sanno tutti, persino Virginia Raggi che negò le Olimpiadi a Roma. E allora eccolo a svitare, pian piano, una vite di qua e una di là attorno alla Lega, a Giorgetti e ai grillini sempre più storditi. Sicché lentamente la riforma “nefasta”, in questi anni, ha perso pezzi. Si è indebolita. In parte depotenziata durante il secondo governo Conte. E questo malgrado Mario Draghi, a giugno, in realtà abbia approvato i decreti che la rendono operativa. Come andrà a finire? Manca il colpo finale, pensa Malagò. Chissà. L’ultima botta.
E così dicendo, questo sessantaduenne snodato e senza protervia, recupera il tono allegro da (ex) scavezzacollo: tutte le federazioni chiederanno di cambiare la riforma, e io sarò il portabandiera di questa battaglia sacrosanta. Le quaranta medaglie olimpiche, i dieci ori, il record di Roma 1960 infranto, gli hanno costruito intorno uno scudo dall’apparenza infrangibile. E infatti oggi è come se Malagò si muovesse, respirasse e parlasse dall’interno di una teca blindata ai colpi di maglio della politica. Non c’è Giorgetti, e non c’è Salvini, che possano perforarla.
Nemmeno sullo ius soli sportivo, che lui ha lasciato precipitare così, con ostentata disinvoltura nel calderone agitato della campagna elettorale permanente. Come nulla fosse. Piccola malizia contro la Lega, dicono alcuni. Puro dovere da dirigente sportivo, dice lui, perché per un atleta italiano figlio di stranieri il primo e più pericoloso degli avversari oggi è la burocrazia ottusa che gli impedisce di gareggiare all’estero in difesa del tricolore. Si vedrà come andrà a finire con la Lega. Tre anni sono lunghi. E la memoria, anche quella degli ori olimpici, dannatamente breve.