emergenza afghana
“C'è un accordo coi talebani”, dicono gli Usa. Ma all'aeroporto è il caos. E anche alla Farnesina
I viaggi nei portabagagli, i nuovi ordini dagli Stati Uniti. E poi le zuffe romane tra ministeri e deputati
Il viaggio da Herat a Kabul è già di per sé un azzardo sfiancante. Ma fatte rattrappite nel portabagagli di un blindato, quelle dieci ore abbondanti di tragitto diventano una corsa a fari spenti lungo l’orlo di un buco nero. E però l’interprete afghano, collaboratore della nostra ambasciata che è riuscito ad arrivare a Roma col volo di lunedì, ha subito protestato: “Mi avevate promesso che anche mia moglie, anche mia figlia, sarebbero state salvate”. Al ministero della Difesa si sono allora fatti mandare il numero di telefono e la foto dei passaporti delle due donne, le hanno contattate e hanno spiegato loro la situazione. L’unico modo per farle arrivare nella capitale, e da lì metterle su un aereo che lo porti a Roma, è un viaggio di fortuna. Nel portabagagli di un blindato.
Nel frattempo a Montecitorio la discussione è accalorata. Perché Guerini e Di Maio sono chiamati a riferire in Parlamento (forse martedì 24 agosto) e Italia viva e Forza Italia insistono perché l’informativa avvenga in Aula, con tutta la solennità del caso. Solo che l’Aula bisogna riempirla, almeno per metà, anche se è agosto: perché mostrare l’emiciclo mezzo deserto sarebbe una figuraccia. “Meglio farlo con le commissioni Difesa e Esteri riunite”, suggeriscono allora dal M5s. Perché a quel punto ci si può connettere da remoto, secondo regolamento. E quindi la relazione dei ministri la si può ascoltare anche dalla sdraio, sotto l’ombrellone.
Insomma la distanza è quel che è, e non è solo geografica, tra la politica romana e l’emergenza afghana. E non sorprende che allora lì, nel mezzo, nei ministeri in cui si pianifica l’espatrio dei tanti afghani che hanno lavorato per noi, per anni, si sviluppi una guerriglia di veline e di mezze cattiverie. E perfino il rientro anticipato dell’ambasciatore italiano a Kabul, quel Vittorio Sandalli che, unico tra i suoi omologhi europei, è salito sul primo volo per rientrare in Italia, lasciando il suo avamposto nella trincea afghana, per generare un vespaio di polemiche controllate a stento. “C’è lì comunque un nostro valido funzionario, e in più l’ambasciatore Stefano Pontecorvo”, spiegano dallo staff di Di Maio. Solo che Pontecorvo, precisano dalla Difesa con l’aria di chi è irritato, è al servizio della Nato.
Il disordine non è comunque solo romano. I generali americani presenti a Kabul, in una riunione improvvisata nei locali dell’aeroporto riaperto solo a metà, ieri pomeriggio hanno spiegato ai responsabili dei contingenti europei e turchi che le operazioni di espatrio ripartiranno solo nelle prossime ore, e che la precedenza verrà data ai 15.000 afghani stipendiati da Washington. Nel frattempo, però, bisognerà riorganizzare la gestione dell’aeroporto. Perché nell’unico varco aperto, ieri, lungo tutto il perimetro dello scalo di Kabul, militari americani e tedeschi si sono ritrovati a dover respingere a mani nude, e con cattive maniere, una massa indistinta di uomini che brandiva in aria i propri documenti, o una lista che conteneva il proprio nome e quello dei propri familiari, a testimoniare che loro meritavano la salvezza. Ma come controllare le loro identità, in questa situazione? Allora bisognerà creare vari gate, e ciascun contingente dovrà indirizzare in quel varco le persone destinate a salire sui propri aerei.
Ma anche questa pare un’impresa (la lista dei “nostri collaboratori” va lievitando: da 380 iniziali si è arrivati a oltre 2.000 persone), anche a dispetto dello sforzo che il Dis, guidato da Elisabetta Belloni, sta producendo d’intesa con l’Aise, con l’unità di crisi della Farnesina e con la Difesa, dove è quanto mai preziosa l’opera del generale Luciano Portolano, a capo del comando interforze. Perché sarà pur vero, come gli americani hanno spiegato agli alleati, che i talebani hanno garantito che non ci saranno violenze intorno all’aeroporto. Ma la paura è ormai irrazionale, nella folla. E così è proprio il riversarsi scomposto degli afghani in cerca di fuga lungo le strade davanti all’aeroporto che complica tutto. Per cui anche chi viene sollecitato dai nostri militari a uscire di casa finisce magari col rintanarsi in sedici in una stanza, bambini di 5 anni e adulti cinquantenni, mandando messaggi vocali per chiedere di essere prelevati in sicurezza: “Se non venite voi, noi non ci muoviamo”. E ci vorranno ancora giorni, parecchi, prima che tutto finisca. Almeno per chi ce la farà.