Guerre a sinistra
Quella fredda, in Kosovo, in Afghanistan. Un tempo i progressisti ne discutevano sul serio. Oggi ripetono soltanto luoghi comuni
Adesso che i tremendi attentati dell’Isis, la ritirata americana sempre più simile a una rotta, le immagini strazianti dei tanti afghani in cerca di scampo e quelle di Joe Biden in cerca di giustificazioni si confondono, soprattutto a sinistra, con accuse e recriminazioni contraddittorie – quelli che non volevano l’impegno e ora contestano il disimpegno, quelli che criticavano la pretesa di imporre diritti umani e democrazia con la forza e ora pretendono eccome, salvo poi aggiungere che l’errore degli americani è stato “non ascoltare abbastanza” gli afghani – è difficile riprendere il filo di un dibattito che pure, a suo tempo, è stato acceso, sentito, lacerante, ma anche autentico.
Il ritiro unilaterale da una guerra che non lo era stata affatto, al contrario dell’intervento in Iraq, ha finito per rimescolare definitivamente le carte e incasinare ogni discussione, confondendo gli alibi di oggi e le ragioni di allora, il senno del poi e le fregnacce del prima (e viceversa).
Dai dolenti post su Facebook dell’ultimo militante di sinistra alla singolare intervista del segretario del Partito democratico a Repubblica del 17 agosto – quella in cui Enrico Letta parlava di Siria, Afghanistan e Iraq come delle “tre guerre sbagliate dell’occidente” – tutto sembra essersi ridotto a un omogeneizzato indistinto, a un insieme di dichiarazioni scomposte e luoghi comuni sconnessi, a un interminabile comizio di Alessandro Di Battista. Tanto che nemmeno il leader del principale partito del centrosinistra sembra essere più capace di distinguere l’unilaterale intervento in Iraq, il multilaterale intervento in Afghanistan e l’inesistente intervento in Siria (dove semmai, se una colpa può essere addebitata all’occidente, è per l’appunto quella di non essere intervenuto).
E pensare che proprio l’intervento in Afghanistan, visto da qui, cioè dall’Italia, e in particolare dal punto di vista della sinistra italiana, era stato il momento culminante di un’evoluzione lunga e tormentata, sebbene certo non lineare e piena di contraddizioni.
Volendo riprendere la storia dall’inizio, infatti, bisognerebbe ricominciare dall’alba della cosiddetta Seconda Repubblica, e dalla stessa nascita del centrosinistra come coalizione elettorale, formata dai diretti discendenti del Pci, del Partito socialista e delle correnti di sinistra della Democrazia cristiana. A un esame di storia contemporanea potrebbe essere una splendida domanda a trabocchetto: quale di queste formazioni, per la propria tradizione politico-culturale, avrebbe potuto fregiarsi maggiormente dell’etichetta “atlantista”?
Oggi, al tempo del governo Draghi, che si definisce orgogliosamente “europeista e atlantista”, e in cui il Pd – almeno sulla carta – tra tutti i partiti della maggioranza dovrebbe essere quello più a proprio agio, questo tuffo nel passato apparirà come una bizzarra digressione nella storia medievale. Ma la verità è che la domanda di cui sopra non ha una risposta univoca.
Se mi avventuro su un terreno così accidentato è perché è proprio qui che si verificò, tra la fine del 1998 e l’inizio del 1999, il primo importante scarto, a sinistra, sulla guerra, l’Europa e il rapporto con l’America (perlomeno nella Seconda Repubblica).
La versione più radicale di questa storia, che a me personalmente è sempre parsa un po’ anacronistica, raccontava la stessa caduta di Romano Prodi e l’ascesa a Palazzo Chigi di Massimo D’Alema come una conseguenza diretta dell’imminente guerra del Kosovo. In questa versione, alimentata soprattutto da Francesco Cossiga, il fattore decisivo che avrebbe determinato la caduta del primo governo di centrosinistra sarebbe stato non tanto la ritrosia prodiana all’intervento militare, quanto la necessità di avere al governo un leader pienamente riconosciuto dall’elettorato ex comunista, che per tutti i lunghi decenni della Guerra fredda aveva sempre riempito le piazze in nome della pace e contro l’imperialismo (a me il fattore decisivo sembra sia stato semplicemente Cossiga, ma è discussione ormai oziosa, che ricordo solo per dire quanto quelle vicende, e soprattutto le loro diverse interpretazioni, fossero insieme delicate e ambigue, cariche di storia e anche di pesanti conseguenze politiche).
Resta comunque il fatto che su quella scelta il presidente del Consiglio D’Alema decise di pubblicare immediatamente anche un libro: “Kosovo – Gli italiani e la guerra” (Mondadori, 1999), nella forma di una lunga intervista con Federico Rampini. Il primo capitolo s’intitolava: “La vigilia. Un ex comunista agli esami di politica estera”. Nel risvolto di copertina D’Alema chiariva: “Ho scelto di ricostruire alcuni momenti, i più significativi, di questa vicenda perché sono convinto che ci abbia reso più forti e consapevoli dei nostri doveri”.
La scelta dividerà profondamente la sinistra radicale dal resto del centrosinistra, allargando peraltro una ferita già aperta. Il primissimo dei tanti fattori decisivi della caduta del governo Prodi era stata infatti proprio l’uscita di Rifondazione comunista dalla maggioranza, che Cossiga aveva sostituito con l’Udr, formazione centrista nata qualche mese prima in Parlamento.
Niente però mi pare paragonabile all’importanza e alla profondità della discussione che si apre a sinistra all’indomani dell’11 settembre 2001, quando si comincia a parlare di un possibile intervento in Afghanistan, proprio mentre il principale partito della sinistra celebra il suo congresso.
Piero Fassino, infatti, sarà proclamato segretario il 18 novembre 2001 con il 61 per cento dei voti raccolti nelle sezioni, al termine di un dibattito vero, ampio e diffuso, forse l’unico, nella pur breve storia delle formazioni post-comuniste che precedettero il Pd (quanto al Pci, va bene, è un’altra storia, ma insomma, non è che al suo interno vigesse proprio la democrazia dell’alternanza).
Ufficialmente, la corsa comincia il 3 settembre, quando vengono depositate le mozioni congressuali (oltre a quella di Fassino, la mozione cosiddetta “ulivista” di Enrico Morando e quella del “correntone” guidato da Giovanni Berlinguer, in verità già depositata ai primi di agosto). Ma le posizioni fissate in quei documenti potrebbero avere un qualche interesse al massimo per gli amanti della storia controfattuale. Otto giorni dopo, infatti, è l’11 settembre del 2001: l’attacco alle Torri gemelle nel cuore di New York.
Per dare un’idea del clima in cui tutto questo accade, va ricordato che il 3 settembre 2001 non cadeva soltanto otto giorni prima del più grande attentato in territorio americano dai tempi di Pearl Harbour, ma anche meno di due mesi dopo le manifestazioni contro il G8 di Genova, la morte di Carlo Giuliani e i pestaggi della scuola Diaz.
Alla marcia della pace Perugia-Assisi fissata per il 14 ottobre, ad appena una settimana dall’inizio della guerra in Afghanistan, i leader no global promettono un paio di “ceffoni umanitari” per i dirigenti del centrosinistra intenzionati a partecipare. Poi spiegheranno che erano “ceffoni metaforici”, ma è il pensiero che conta.
Del resto, nel corso degli anni successivi, non mancheranno anche ceffoni veri e propri, nelle tante manifestazioni in cui no global, pacifisti e partiti di sinistra, radicali e riformisti, continueranno a incrociarsi, contendendosi il terreno e le bandiere, a cominciare da quella della pace, anche a cazzotti.
Anche quando appoggiano l’intervento militare e ne difendono le ragioni, infatti, i dirigenti della sinistra non vogliono lasciarsi espellere dal movimento per la pace.
Ci sono ovviamente ragioni tattiche: a spingere per il dialogo con i movimenti, a cominciare da quel movimento no global che pure li corrisponde così poco, è anzitutto la sinistra interna, schierata con Giovanni Berlinguer (in verità, come sempre, anche questa è una storia più complicata, essendo il “correntone” così chiamato in quanto nato dalla confluenza tra la corrente della sinistra storica e quella dei veltroniani, che in teoria dovrebbero essere i più filoamericani e i meno radicali di tutti, e infatti in buona parte tali ritorneranno, ma ho appena 12.500 battute di spazio, e se comincio con la storia delle correnti non mi bastano nemmeno per l’introduzione). Alla base di quella e di tante altre ambiguità ci sono però anche ragioni più profonde: storiche, simboliche, personali, persino esistenziali.
Sta di fatto che da quella parte – con i movimenti che gridano “No alla guerra senza se e senza ma”, e con il correntone che al congresso sfida Fassino – sono schierati, con tutto il loro peso, il direttore dell’Unità, Furio Colombo, e il segretario della Cgil, Sergio Cofferati. E anche questa è una novità assoluta, per il partito erede del Pci.
Una piccola leggenda locale, credo inventata per farmi piacere, vuole che alla sezione Mazzini il mio personale intervento di giovane militante abbia fatto perdere un voto al correntone, non perché io abbia convinto nessuno con la forza dei miei argomenti (cosa che non credo mi sia mai capitata), ma perché feci talmente arrabbiare uno dei presenti (questo, lo ammetto, mi capita un po’ più spesso), che quello si alzò nel bel mezzo del mio discorso, mi mandò platealmente a quel paese e uscì indignato dalla sala, ma evidentemente si dimenticò o non ebbe modo di sbollire in tempo per tornare a votare. E tutto perché avevo citato un’intervista di Naomi Klein, in quel momento al massimo della sua popolarità a sinistra come fresca autrice del best seller “No Logo”. Intervista che purtroppo non sono riuscito a recuperare – quindi cito a memoria – in cui diceva che Jospin o Aznar, Schröder, Blair o Bush non facevano per lei nessuna differenza. Io mi ero limitato a chiosare, citando un vecchio film di Nanni Moretti, che un tempo a quelli che dicevano “destra o sinistra sono tutti uguali” avremmo replicato “te lo meriti Alberto Sordi”. La cosa buffa è che non esistevano ancora né il grillismo né i girotondi, cioè il movimento proto-grillino che appena qualche mese dopo sarebbe stato fondato giusto da Nanni Moretti (escludo comunque che ciò sia avvenuto per colpa mia).
La piccola testimonianza personale mi serve per dire una cosa molto semplice, cui probabilmente nessuno dei lettori più giovani crederà nemmeno per un minuto: che era bello. Comunque la si pensasse sulla guerra in Afghanistan, su Naomi Klein, sui movimenti no global o sulle bandiere arcobaleno. Era bello. Era una discussione vera. Era una battaglia che si combatteva sezione per sezione, con tante persone che si confrontavano e si accapigliavano intorno ai problemi più grandi e angoscianti di quel momento. Ed è un vero peccato che nella lunga storia della sinistra italiana questi momenti siano stati assai più l’eccezione che la regola.
Ora Enrico Letta dice che non si può leggere la vicenda afghana “slegandola dalla guerra in Iraq del 2003 e dalla over-reaction americana dopo l’attentato dell’11 settembre”. Dunque, par di capire, a suo giudizio avevano ragione Gino Strada e i tanti – tra i quali non mi risulta vi fossero né Letta né il partito in cui allora militava, la Margherita – che a quel tempo giudicarono l’intervento in Afghanistan una reazione, appunto, spropositata e ingiustificata. Immagino che di fronte a un attacco che fa tremila morti nel centro di New York, apertamente rivendicato da un’organizzazione che in quel momento aveva i suoi campi di addestramento e il suo centro operativo nell’Afghanistan dei talebani, secondo Letta gli americani avrebbero dovuto presentare una formale richiesta di risarcimento danni. O forse, come si diceva allora e si è continuato a dire in tante altre occasioni, avrebbero dovuto esercitare straordinarie pressioni politiche e diplomatiche.
Ma quali pressioni si possono esercitare, se si pretende di escludere dal novero delle ipotesi il ricorso alla forza, vale a dire una volta che ci si è legati le mani dietro la schiena e si è consegnato il manico del coltello all’interlocutore? Che senso ha, a quel punto, dichiararsi fermamente intenzionati a premere sulla lama? La vicenda di Kabul sta lì a dimostrarlo, ma non è che ce ne fosse tanto bisogno: l’annuncio di una ritirata non è esattamente il miglior modo di rafforzare la propria posizione negoziale.
Accettare che ogni atto di forza sia escluso in partenza, a prescindere, senza se e senza ma, significa che dobbiamo rassegnarci a vedere affermarsi, e moltiplicarsi, gli atti di forza altrui. Se questo è l’altro mondo possibile di cui parlavano i movimenti pacifisti e no global, a sinistra sarebbe forse il caso di tornare a discuterne, domandandosi se sia anche, davvero, un mondo migliore.