consenso e potere
Dicesi Leader. Da Platone a Machiavelli e Gramsci
Sono tanti gli studiosi che hanno investigato su quell’innato istinto di dominio dell’uomo. Ma c’è differenza tra carisma e populismo
Perché nel passaggio di secolo, in forma prima silenziosa, poi via via più rumorosa e eclatante, la sfiducia nelle élite politiche è esplosa così clamorosamente? Almeno in Italia, la risposta che forse ha ricevuto più credito è anche la più semplice: la “casta” è diventata insopportabile perché i leader sono peggiorati. Come si suol dire, “non ci sono più i capi di una volta”. La stessa maggioranza dei parlamentari è spesso considerata come esempio di impreparazione, di cattiva conoscenza dei problemi, di inefficienza, marcata dal vizio del privilegio e dell’affarismo. Ora, non c’è dubbio che l’irruzione nella scena pubblica domestica di Mario Draghi ha contribuito a rimettere in discussione questa linea di pensiero di matrice populista.
Ma cos’è la leadership? Il termine deriva dal verbo inglese “to lead”, che è stato comunemente usato per tradurre il latino “ducere”. Nelle scienze sociali le sue definizioni si sono moltiplicate nel corso del tempo. Storicamente, è stato forse Platone il primo ad affermare il principio della leadership. Nelle Leggi, il filosofo greco afferma che vi è chi, essendo nato e educato per questa funzione, deve “comandare, guidare e governare” gli altri perseguendo il bene della polis. Nella cultura ellenica e latina l’interesse per i grandi leader politici e militari è costante. Ma solo nel 69 d.C. la “Lex de imperio Vespasiani” legittima il potere personale assoluto dell’imperatore romano, da cui trae origine la categoria politica del cesarismo. Se cavalieri e re rappresentano i leader più rilevanti del Medioevo, la “Great Rebellion” inglese del Seicento apre la via al primo episodio cesaristico moderno, la dittatura personale di Oliviero Cromwell. Con la “Glorius Revolution” di fine secolo comincia invece l’era della monarchia costituzionale, che culminerà nella creazione del Gabinetto di governo e dell’istituto del premier. Per altro verso, dalla Rivoluzione americana e dalla Convenzione che ne sancisce la vittoria (1787) nasce la repubblica presidenziale. Le due democrazie anglosassoni si sono così assicurate una leadership personale forte attraverso la sua progressiva istituzionalizzazione.
I principali Stati europei svilupperanno il modello della democrazia parlamentare, ma la Francia ha vissuto con i due Bonaparte esperienze illiberali, che hanno ispirato una nuova categoria della politica: il bonapartismo, coincidente con il cesarismo per l’essenziale, ossia il potere personale appoggiato dall’esercito e dal popolo tramite l’istituto del plebiscito. Da ultimo, in pieno Ventesimo secolo, Italia, Germania e Russia sono state soggette a regimi totalitari. La riflessione scientifica sulla leadership matura tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso, con i contributi di Gaetano Mosca sulla classe politica e di Vilfredo Pareto sulle élite, di Roberto Michels sui partiti e sui sindacati operai e poi sul fascismo. Nel secolare dibattito sulla leadership non sono mancate impostazioni poco precise e partigiane, in particolare del rapporto tra leader e società. Secondo gli studiosi più avvertiti si tratta di un rapporto di interazione, che va esaminato nel suo concreto equilibrio in ciascun caso storico. Cogliendo questo aspetto del problema, Machiavelli scrive nel Principe che per conoscere la “virtù” di Mosè, la “grandezza d’animo” di Ciro e la “eccellenzia” di Teseo erano necessarie le condizioni rispettivamente di schiavitù, oppressione e dispersione dei loro popoli; e che quelle tre condizioni si trovavano unitamente presenti nella nostra penisola, ma esasperate, forse proprio per mettere alla prova “la virtù di uno spirito italico”. Quale che sia il giudizio sulle qualità della leadership, l’evidenza empirica ci dice che essa ha giocato un ruolo cruciale soprattutto nelle situazioni straordinarie, ossia di fondazione o trasformazione di uno Stato.
Si è appena detto di Machiavelli, scienziato assai pragmatico della politica. Ma nella filosofia della storia di Hegel l’individuo “cosmico-storico” è pur sempre il protagonista delle grandi crisi di transizione, colui che squarcia l’involucro soffocante del vecchio ordine per farne nascere uno nuovo. Solo che per il grande fiorentino il leader solca un mare dalle rotte sempre ignote, mentre per il filosofo tedesco (e per Marx) il porto in cui approderà è comunque prestabilito.
Ma è stato soprattutto Max Weber a lasciare l’impronta più profonda con l’elaborazione del concetto di carisma. La forza del carisma sta nell’ascendenza divina che (si tratti di re o profeti) viene solitamente associata al capo, e nella natura messianica del suo messaggio. Il carisma nasce da uno stato di grazia unito, quasi sempre, a una disponibilità al sacrificio come occasione palingenetica. Il capo carismatico promette per sua natura un nuovo inizio, e in questa promessa sta la sua capacità di trascinare le folle. Quando Weber scriveva le sue tesi, non c’era ancora la radio come canale di intrattenimento. Il cinema faceva i suoi primi passi, muti. E la televisione non era neppure immaginabile. Tuttavia, non aveva sottovalutato le potenzialità del potere carismatico. Con ciò presagendo genialmente la nascita, dopo pochi anni in tutta Europa, di leader visionari e magnetici.
Per quanto essi facessero largo uso della propaganda di stampa e, da un certo momento in avanti, della radio, il loro appeal sulle folle era mediato soprattutto dagli assembramenti fisici, dalle “adunate oceaniche”. Che cosa sarebbe successo - come domanderà una fortunata pubblicità televisiva a proposito di Gandhi- se i leader carismatici avessero avuto a disposizione i moderni mezzi di comunicazione? Forse meno di quanto si possa immaginare. Perché, come i nuovi videoleader avrebbero imparato a proprie spese, i media hanno la capacità di rendere celebre in tempi rapidissimi un nuovo personaggio e il suo messaggio; ma, in tempi altrettanto rapidissimi, possono logorarlo e distruggerlo. Secondo Mauro Calise, che ha dedicato diversi libri all’argomento, è ciò che rende i “capi attuali così potenti e, insieme, così fragili”. Beninteso, senza nulla togliere al fatto che la televisione e i social network hanno trasformato le mille piazze reali di un paese in un’unica piazza virtuale, con una capacità di fuoco comunicativa praticamente illimitata. Innovazione che ha cambiato anche la natura del messaggio -e del linguaggio- con cui i nuovi leader si rivolgono alla propria audience.
In Italia, dalla metà degli anni Ottanta, i leader politici sono tracimati prima nei talk-show e poi nelle trasmissioni di intrattenimento, per ballare, cantare, cucinare, nel tentativo di apparire più vicini (o più simpatici) ai loro potenziali elettori. Questa mutazione genetica riflette tendenze più ampie, che concorrono a segnare quella che è stata chiamata “era del narcisismo”. Si spettacolarizza la società (come aveva previsto Guy Debord nel 1967) e si spettacolarizza la politica (come aveva previsto Neil Postman nel 1986).
A questo punto, la domanda è: perché il potere ha consenso? Di primo acchito, la risposta di Carl Schmitt sembra la più plausibile: “In certi casi per fiducia, in altri per paura, a volte per speranza, a volte per disperazione” (Dialogo sul potere). Secondo il giurista di Plettenberg gli uomini hanno bisogno di protezione, e cercano questa protezione nel potere. Il legame tra protezione e obbedienza è per lui l’unica spiegazione del potere. Chi non ha il potere di proteggere qualcuno non ha nemmeno il diritto di esigerne l’obbedienza. Viceversa, “chi cerca protezione e la ottiene non ha il diritto di negare la propria obbedienza”. Il potere ha una logica interna che va al di là di chi lo esercita: “è più forte di ogni volontà di potenza, più forte di ogni bontà umana e, per fortuna, di ogni umana cattiveria”. Il potere, insomma, non ha identità, ma produce identità, quella per il cui riconoscimento servo e padrone si affrontano nella hegeliana Fenomenologia dello spirito.
C’è qualcosa di tragico in questa visione. Quando Schmitt concepisce il suo pamphlet (1954), il potere veniva già identificato da Martin Heiddeger con la “gabbia della tecnica”, con la capacità di ridurre gli uomini a “piccoli funzionari” dell’apparato globale. Tuttavia, il pensiero di Schmitt si discosta non poco da quello del filosofo di Essere e tempo, di cui era buon amico. Il titolo esteso del Dialogo recita, infatti, sull’accesso a coloro che lo detengono. Il problema del potere è cioè quello di come sia possibile entrarvi in contatto. Partendo dall’affermazione che “ogni potere diretto è sottoposto immediatamente a influenze indirette”, la sua conclusione è che “non esiste alcun potere senza questa anticamera, senza questo corridoio” (nel 1890 Bismarck si dimise quando l’imperatore Guglielmo rifiutò il preventivo assenso del cancelliere sui suoi ospiti a corte).
L’essenza del potere viene insomma solo adombrata, ma non enunciata esplicitamente. La condizione dell’uomo schimittiano di fronte al potere somiglia a quella del campagnolo della novella di Kafka Vor dem Gesetz (pubblicata nel 1915 e poi inserita nel romanzo Il Processo), che attende invano di poter varcare la porta della legge (“Gesetz”), perché un custode – da cui viene soggiogato – glielo impedisce. Analogamente, per il teorico dello “stato d’eccezione” davanti alla porta del potere c’è sempre “un’antichambre”, a cui prima bisogna accedere per poterla varcare. Ciò significa che del potere non vediamo mai il volto, ma soltanto la sua immagine riflessa nello specchio della storia, della lotta per la sua conquista. D’altronde, l’idea che il potere vero stia “altrove”, che sia invisibile e remoto ancorché influentissimo, ancora oggi è largamente diffusa.
Cos’è, allora, il potere? Secondo Hannah Arendt, se il potere non ha bisogno di giustificazione, essendo inerente all’esistenza stessa delle comunità politiche, non può però fare a meno della legittimazione: la violenza può essere giustificabile, ma non sarà mai legittimata. È pertanto insufficiente affermare che il potere e la violenza non sono la stessa cosa. Il potere e la violenza sono opposti; dove governa l’una, l’altro è assente. Questo implica che “non è corretto pensare all’opposto della violenza in termini di non violenza; parlare di potere non violento è di fatto una ridondanza” (Sulla violenza). Se la pratica non violenta di Gandhi si fosse scontrata con la Russia di Stalin, la Germania di Hitler, il Giappone anteguerra, invece che con l’impero britannico, probabilmente il suo esito sarebbe stato non la decolonizzazione, ma un massacro. Riassumendo: il potere fa senz’altro parte dell’essenza di tutti i governi, ma la violenza no. La violenza è per natura strumentale, mentre il potere è “un fine in sé”. E’ come la pace: un assoluto.
Ci sono però anche altri vocabolari del potere, che non parlano soltanto dell’innato istinto di dominio dell’uomo e della sua speculare, congenita inclinazione all’obbedienza. C’è il vocabolario delle donne, anzitutto di quelle donne che hanno saputo affilare le proprie armi – la bellezza, l’intelligenza, la seduzione, l’astuzia – per mettere in discussione l’arbitrio maschile nella politica, nella cultura, nell’arte. C’è poi il vocabolario di quella tradizione liberale che, partendo dai moralisti scozzesi (David Hume, Adam Smith e prima ancora il loro maestro Francis Hutcheson) e dalla nozione di “simpatia”, ha visto il suo ideale compimento nella Scuola austriaca di economia. Si deve in particolare a Lorenzo Infantino, infaticabile promotore in Italia del pensiero di Carl Menger, Eugen Böhm-Bawerk, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek, il tentativo di sviluppare il discorso liberale sulla natura del potere in un contesto più vasto: una teoria generale del potere sociale.
Come ha osservato Alberto Mingardi, il docente della Luiss adotta una prospettiva non lontana da quella di un grande liberale italiano: Bruno Leoni. Proprio il discepolo di Gioele Solari è l’artefice, sul finire degli anni Cinquanta, di una delle più originali trattazioni in chiave liberale del concetto di potere. Le sue Lezioni di dottrina dello stato segnano una sorta di rivoluzione copernicana nell’infinito dibattito sull’origine e le radici del potere, che ribalta il vecchio primato dell’elemento conflittuale e lo sostituisce con il primato dell’elemento cooperativo. Il capolavoro di Leoni, Freedom and the Law (“La libertà e la legge”, nel 1961), è un aspro atto d’accusa contro il positivismo giuridico, contro ogni concezione del potere inteso come strumento di dominio e non di cooperazione tra individui diversi.
Pochi decenni prima di Leoni, commentando la morte di Lenin, Antonio Gramsci aveva affidato le sue riflessioni sul potere al settimanale Ordine Nuovo (1 marzo 1924). Esse si collocano agli antipodi della tradizione liberaldemocratica, ma offrono qualche spunto di discussione su un tema che da almeno un ventennio monopolizza le cronache della politica italiana. “Ogni Stato”, scriveva l’allora segretario del Partito comunista, “è una dittatura. Ogni Stato non può non avere un governo, costituito da un ristretto numero di uomini, che a loro volta si organizzano intorno a uno dotato di maggiore capacità e maggiore chiaroveggenza. Finché sarà necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un capo”.
Gramsci teorizzava dunque la necessità di quella leadership carismatica che oggi viene vista col fumo negli occhi dai suoi (sedicenti) eredi, né mancava di deridere la posizione di “quei socialisti [che sostengono di volere] la dittatura del proletariato, ma di non volere la dittatura dei capi, […] che il comando si personalizzi”. Egli si riferiva ovviamente al partito operaio, ma non è certo un caso che tutte le esperienze totalitarie, di destra e di sinistra, si siano rette su un culto della personalità assoluto, che saldava bisogno di adorazione delle masse e megalomania del leader.