Calenda non ha trippa per il gattaccio elettore
La scommessa di fare sul serio nella Capitale è ardua per definizione. Ma vedendo gli altri candidati e i sondaggi non è detto che ci si debba rifugiare per forza nel voto utile. Forza Calenda!
Ho quasi deciso per Calenda sindaco, sono quasi incinto con largo anticipo rispetto ai miei dubbi e paradossi, per due motivi. Primo, è simpatico, accipicchia se lo è, ha capito dopo un iniziale smarrimento che il pupetto instagrammatico capitato nelle liste sue con tutto il corredino griffato (e guardatele quelle foto, libbbberali dei miei stivali!) è impalatabile per i romani, di cui Carlo è figlio legittimo; andrebbe bene per la redazione dell’Inkiesta e per i calzini arcobaleno dell’ottimo Sala, ma qui abbiamo altre gatte da pelare che il suo “orrendo pataccone” da piguettone (così cantò Carletto). La voce dal sen fuggita del candidato di “Roma sul serio” è melodramma al più alto livello e a me piace l’opera e tutto ciò che è operatic.
Secondo. I sondaggi dicono con una certa regolarità che Gualtieri non è in pericolo di estromissione dal ballottaggio con l’erede di Eliogabalo e del Gallo Cedrone, la Raggi è sulla via di casa, e questo paradossalmente rassicura, al momento, sulla infima e rinunciataria e immorale ma indiscutibile questione del voto utile.
Votare uno perché ti piace, per giunta sapendo che non darai così il via al teatro dell’assurdo e alla sagra del porchettame con un ballottaggio tra Caligola e la Regina della Monnezza, che esperienza deliziosa della democrazia competitiva. Ma in tema di paradossi ce n’è uno serissimo e a suo modo tragico. Calenda rischia forte (eufemismo) di non finire al ballottaggio perché essendo il primo della classe meriterebbe senz’altro di finirci. Si è candidato prima degli altri, ha raccolto soldi veri dai suoi sponsor per metterli al servizio di un progetto razionale e poco romano, dunque, ma assolutamente necessario: governare l’Ingovernabile per eccellenza, dopo averlo studiato e sminuzzato per un po’ di tempo; comunica razionalmente, non ha paura di concetti anche semicomplessi, sciorina cifre senza paura; è autoironico, si fa vedere ai Parioli dopo tanta periferia, “finalmente ai Parioli!” dice a quelli che vogliono colpirlo come figlio di papà e di mammà; istruisce i suoi boy scout per il porta a porta, un pedagogo politico esemplare, e insomma sembra il degno erede del sindaco Nathan.
Però, come nella famosa ordinanza dell’unico sindaco genuinamente liberale della Capitale, il guaio di Calenda è che “non c’è trippa per gatti”. L’elettore medio è un gattaccio del Colosseo che aspetta gli si lasci una concolina di trippa, la trippa di cittadinanza, diciamo così, o almeno una birretta notturna e a basso costo per la malamovida. Non vuole essere istruito sui mali e i rimedi di Roma, vuole essere coccolato e anche illuso, gratificato, trasportato nella sottile menzogna della politica, nel supremo irrazionale. La scommessa di fare sul serio a Roma è ardua per definizione. Fossi più giovane, non avrei dubbi e voterei cinico, indifferente a bene e male, preoccupato solo del risultato utile; ma invecchiando si diventa un po’ minchioni, e si vorrebbe che Calenda vincesse addirittura, sorpresa quasi inattingibile, o perdesse lasciando comunque che vinca il meno peggio.