Mister whatever he wants
Dal green pass al rapporto con i partiti. Perché il futuro di Draghi dipenderà da ciò che vorrà fare lui
La decisione da parte del Consiglio dei ministri di estendere l’obbligo del green pass a tutti i lavoratori pubblici e privati (sia lodato il cielo) proietta il governo Draghi verso una nuova stagione sintetizzata da un’espressione destinata a prendere il posto del famoso whatever it takes: whatever he wants. Nel giro di sei mesi, Draghi è passato dalla fase insindacabile del fare tutto ciò che era necessario per salvare l’Italia dalle conseguenze della pandemia (vaccini, ristori, tamponi, recovery) a una fase più ambiziosa all’interno della quale anche le scelte sindacabili del presidente del Consiglio si trasformano in scelte non sindacabili.
La decisione di ampliare in modo considerevole l’uso del green pass (a partire da metà ottobre) è l’ultimo di una serie di provvedimenti importanti che il governo ha scelto di adottare anche a costo di non avere l’unanimità della maggioranza. Il whatever he wants di Draghi – la capacità cioè del premier di esercitare i suoi pieni poteri, ops, con il benestare di quasi tutto il Parlamento – non nasce solo dalla capacità del premier di utilizzare la sua autorevolezza nei confronti dei leader dei vari partiti e dei vari sindacati (Salvini e Landini: che coppia!) ma nasce anche dalla miscela di alcuni elementi che meritano di essere passati in rassegna e che sono anche all’origine di una dinamicità della maggioranza dopo la pausa estiva (la legge sulla concorrenza è in dirittura d’arrivo, la delega fiscale si farà entro l’autunno, la riforma del catasto sembra finalmente possibile, sulla cessione di Mps il governo non ha fatto passi indietro e anche su Alitalia Draghi non sembra avere intenzione di farsi dettare l’agenda dai sindacati) sulla quale in pochi avrebbero scommesso vista la vicinanza con le amministrative e l’imminente cambio di guardia al Quirinale. Il primo elemento riguarda un metodo interessante che è quello della depoliticizzazione dei conflitti e una caratteristica dei primi mesi del governo Draghi è stata certamente quella di aver trasformato diverse scelte potenzialmente divisive in scelte di buonsenso: se non si fa come dico io non si fa un dispetto al governo ma si fa un dispetto al paese. La depoliticizzazione dei conflitti (secondo elemento) deriva a sua volta dal modo in cui Draghi ha utilizzato almeno finora la parola concertazione e in questo senso un’altra caratteristica da studiare è la trasformazione della concertazione non più in un semplice fine (decisione uguale mediazione) ma in un mezzo utile ad arrivare a una decisione chiara (si ascolta tutti ma poi si decide da soli).
Il terzo elemento riguarda l’abilità con cui i partiti che si trovano al governo sono riusciti a battagliare tra loro concentrandosi tutto sommato più sull’agenda parlamentare che sull’agenda di governo (per non parlare troppo di semplificazioni, il Pd è tornato a parlare di diritti; per non parlare troppo di green pass la Lega si è messa a parlare di rave). Ma accanto a questo elemento occorre aggiungerne un ultimo altrettanto interessante che riguarda un piccolo miracolo del governo Draghi: l’efficienza dei suoi ministri politici. La regola non vale per tutti, ovviamente, ma i ministri hanno chiare due cose. Da un lato, sanno che la loro vicinanza a Draghi può essere utile anche per regolare alcuni conti nei propri partiti. Dall’altro lato, sapendo che l’attuale inquilino di Palazzo Chigi potrebbe finire un giorno al Quirinale, i ministri fanno tutto ciò che è necessario fare per mostrare a Draghi il proprio X-factor (visto mai un giorno dovesse servire un altro presidente del Consiglio). Il passaggio dal whatever it takes al whatever he wants in fondo è tutto qui. E se il whatever he wants dovesse continuare a funzionare non è difficile immaginare che il futuro di Draghi dipenderà più che dal Parlamento da quello che vorrà fare lui.