l'intervista

Pnrr, pm, reddito, politica, futuro. Garofoli a tutto campo

Claudio Cerasa

Innovazione, riforme, problemi della magistratura e rapporti tra Pd e Lega. Intervista al sottosegretario  alla presidenza del Consiglio, braccio destro di Mario Draghi

Da sei mesi è il braccio destro e il braccio sinistro del presidente del Consiglio e da sei mesi non c’è riforma, non c’è provvedimento, non c’è norma che prima di finire in Consiglio dei ministri non passi da lui, non passi dalle sue mani, non passi dalla sua stanza. Lui si chiama Roberto Garofoli, ha cinquantacinque anni, da febbraio è sottosegretario di stato alla presidenza del Consiglio dei ministri, oltre che segretario del Consiglio dei ministri con delega all’attuazione del programma di governo, e sabato scorso ha accettato di chiacchierare con il Foglio, durante il nostro Festival dell’Innovazione a Venezia, parlando per la prima volta a tutto campo e spiegando in che modo l’innovazione dovrà essere il motore non solo del governo ma dell’Italia dei prossimi sei anni.

 

La nostra conversazione con Roberto Garofoli, che trovate in formato video sul nostro sito, parte da un’affermazione fatta giorni fa dal presidente del Consiglio Mario Draghi. Draghi, ricordiamo a Garofoli, ha detto che le riforme vanno fatte anche se sono impopolari. E al sottosegretario chiediamo dunque che cosa ci sia di impopolare nell’agenda dei prossimi mesi di governo. “Noi – dice Garofoli – abbiamo un programma di governo che è scandito anche nei termini e nei tempi di adozione delle riforme, e che ci siamo autodefiniti nel momento in cui abbiamo elaborato e trasmesso agli organismi europei il Piano nazionale di ripresa e resilienza”. 


“E’ un piano che al nostro paese dà un’occasione storica per le risorse importanti che ci assegna. Ma il Piano nazionale al contempo delinea dei percorsi di superamento di nodi strutturali che hanno sempre inciso, sacrificando la capacità del nostro paese di esprimere le sue potenzialità. Il piano le definisce riforme abilitanti, alcune di queste hanno un orizzonte temporale e una finalità di parziale temporaneità, perché sono necessarie affinché il Piano possa essere attuato e affinché gli interventi e i progetti del Piano possano essere realizzati. E possano essere realizzati in tempi  molto stretti perché quelle ingenti risorse vanno impegnate e spese entro il 2020. Poi però ci sono delle riforme anche di tipo strutturale. Quindi di ampio respiro. Alcune sono state già messe in cantiere, su altre si sta lavorando, e dovranno essere adottate, alcune già nelle prossime settimane”.


Possiamo dire – chiediamo al sottosegretario – che il prossimo passaggio necessario e impopolare con cui dovrà fare i conti il governo è la legge sulla concorrenza?

“Il nostro paese dovrebbe o avrebbe dovuto adottare una legge annuale della concorrenza. L’ultima legge annuale della concorrenza è stata adottata nel 2017, se non vado errato. Si è lavorato a un provvedimento sulla concorrenza, credo che sulla stampa se ne sia parlato per molti aspetti. Certo, la concorrenza o la promozione della concorrenza ha sempre qualche profilo di impopolarità, perché incide su alcuni interessi costituiti. E’ necessario per così dire aprire quei settori, quegli ambiti di mercato, e ci sono alcuni nodi più spinosi di altri, naturalmente. Ci si sta lavorando. Non tutti i paesi in quegli ambiti hanno aperto alla concorrenza, questo è bene che sia detto. Di recente abbiamo rilevato  per esempio che in alcuni paesi europei le concessioni idroelettriche hanno una durata perpetua. E’ uno dei temi oggetto di attenzione da parte del governo e il disegno di legge-delega a cui si sta lavorando ha anche quello come ambito di intervento”.


Tra le azioni non sappiamo se impopolari ma certamente poco popolari vi è anche tutto ciò che gira attorno al futuro del Reddito di cittadinanza. Ci può confermare che le modifiche al Reddito di cittadinanza rientrano all’interno di un pacchetto più generale che riguarda le riforme delle politiche attive?

“Innanzitutto – precisa Garofoli – questa non è una riforma del tipo di quelle di cui parlavamo prima, perché prima mi riferivo alle riforme indicate nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, sulle quali ci siamo impegnati e la cui attuazione e i cui risultati sono la condizione perché le imponenti risorse europee siano riconosciute al nostro paese. Ci sono dei target legati a ogni riforma, un vincolo per ottenere le risorse e la Commissione monitorerà nel tempo tutto questo. Il Reddito di cittadinanza è invece un tema tutto nazionale che però è legato al tema più ampio del lavoro e delle politiche attive del lavoro. E’ un tema su cui è inevitabile mettere mano. Io direi anche che è inevitabile lavorare con un certo tasso, non dico di originalità, ma di innovatività: quella riforma degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive del lavoro è indispensabile perché il paese sappia fronteggiare le trasformazioni e le transizioni strutturali che stiamo attraversando. La pandemia ha accelerato un processo di trasformazione digitale che era già in atto e che sta trasformando il nostro sistema economico e anche il nostro sistema sociale. Ci sono alcuni dati del 2020 che credo rendano in maniera plastica quel che sta accadendo: nel 2020 il commercio elettronico è aumentato del 30,4 per cento e il ritmo di digitalizzazione delle imprese non solo in Italia ma in Europa – delle imprese in media, non solo delle grandi – è aumentato di sette volte rispetto a quanto accaduto negli anni precedenti. Forse però c’è un dato su tutti che rende davvero con evidenza quel che sta accadendo e che continuerà inevitabilmente ad accadere. Amazon ha assunto 427 mila dipendenti, raggiungendo un milione di dipendenti, quindi soltanto nel 2020 ha aumentato del 50 per cento la sua forza lavoro. Senza considerare le imprese presso le quali ha esternalizzato la sua attività. Tutto questo ha un impatto fortissimo sul mercato del lavoro sotto diversi aspetti, perché innanzitutto determina la necessità di nuove professionalità. Molto spesso le imprese non riescono a trovare le competenze di cui hanno bisogno e quindi sono necessarie politiche formative. Queste trasformazioni così radicali del sistema economico determinano un invecchiamento delle competenze e quindi un’inevitabile espulsione dal mercato del lavoro di forza lavoro, di dipendenti. E’ necessario quindi ridefinire le politiche attive del lavoro, integrarle con le politiche di formazione, è necessario che queste politiche e questi nuovi sistemi di ammortizzazione sociale accompagnino la transizione e un po’ attenuino le instabilità del mercato del lavoro, che sono e saranno inevitabili”.


Quale è stata, se c’è stata, l’innovazione in politica portata dal metodo Draghi?

“Io ho lavorato con diversi governi in ruoli molto diversi e molto più tecnici in passato, e quel che posso dire è che senz’altro c’è un metodo nel senso che c’è una programmazione del lavoro. Una programmazione non settimanale ma anche a lungo termine, per cui ad alcune riforme si sta lavorando da tempo. Ovviamente ci sono dei ritmi e devo dire che sono abbastanza intensi e io credo che il metodo di adesso, di questo governo, sia un metodo di confronto, anche robusto direi, tra i ministri. Ci sono cabine di regia settimanali che sono momenti nei quali i ministri che rappresentano le forze politiche di maggioranza si confrontano attorno ai nodi politici e anche talvolta tecnici che i singoli provvedimenti pongono. E poi c’è sempre anche il momento della decisione e devo dire che il presidente la capacità di decisione ce l’ha senz’altro. In questo mi ha da subito colpito, io il presidente Draghi non lo conoscevo, l’ho conosciuto il giorno del giuramento”.


Il giorno del giuramento?

“E’ così. Ho avuto diverse esperienze e ho lavorato con diversi governi, nel governo Prodi ero capo ufficio legislativo del ministero degli Esteri, e poi ho lavorato con Enrico Letta come segretario generale di Palazzo Chigi, poi con il ministro Pier Carlo Padoan come capo gabinetto dell’Economia. Devo dire che tranne Enrico Letta, che avevo conosciuto un mese prima, non avevo conosciuto mai nessuna delle persone che poi mi hanno chiesto di collaborare. E anche il presidente Draghi non l’avevo mai conosciuto. Mi ha chiamato due o tre ore prima del momento in cui è salito poi al Quirinale”.


Se Garofoli dovesse individuare il principale vizio e il principale peccato che la burocrazia italiana dovrà affrontare nel futuro, quale sceglierebbe?  

“Innanzitutto – dice Garofoli – sono parte, mi sento parte e sono orgoglioso di essere parte delle istituzioni pubbliche e anche della Pubblica amministrazione. In particolare poi faccio di professione il magistrato, l’ho fatto per tanti anni, riprenderò a farlo dopo questa pausa e quindi mi sento parte del mondo delle istituzioni pubbliche più in generale, non soltanto la Pubblica amministrazione. Ma venendo alla Pubblica amministrazione in realtà il discorso potrebbe essere esteso a tutte le istituzioni, anche quelle neutrali. Io credo che oggi, e la pandemia lo ha messo  in risalto, ci sia un’esigenza di fortissima riparazione delle strutture pubbliche, delle pubbliche amministrazioni, della macchina amministrativa della Repubblica. Perché la pandemia ha dimostrato che l’amministrazione è senz’altro debole e senz’altro vulnerabile ma l’amministrazione e i suoi diversi gangli, dalla sanità a chi si occupa di politiche assistenziali previdenziali, a chi si occupa di politiche formative ed educative, sono un bene pubblico di cui i cittadini hanno un estremo bisogno. Io penso che in realtà quel che non va non è la burocrazia nell’accezione negativa di cui spesso si parla, ma è l’assenza di una burocrazia adeguata e all’altezza. Il problema nel nostro paese è una macchina usurata, l’Amministrazione pubblica ha subito un declino tecnico enorme negli ultimi decenni, dovuto ad alcune politiche di cui c’era evidentemente bisogno nel momento in cui sono state elaborate e adottate. Faccio riferimento alla politiche di spending, di blocco del turnover, ma oggi è necessario porre mano a una politica di riparazione dello stato. Anzi io credo che la più autentica politica riformista che un paese occidentale come il nostro debba farsi carico di elaborare e di portare avanti con coraggio e determinazione sia proprio quella del rilancio e della riparazione dell’Amministrazione pubblica. Naturalmente occorre agire sul versante delle risorse, occorre agire sul versante delle tecnologie, ma tutto questo non basta, occorre agire sul versante della riorganizzazione strutturale dell’amministrazione perché normalmente si dice che nell’Amministrazione pubblica mancano i giovani. Ed è vero, mancano tantissimi giovani: la nostra  è l’amministrazione più vecchia – si è soliti dare i dati riguardanti l’età media dei dipendenti pubblici, e quell’età   è molto cresciuta. Ma quel che più impressionano  sono i dati riguardanti la presenza dei giovani nell’Amministrazione pubblica: gli under 35 sono passati dal 9 per cento del 2012 al 2,5 per cento, a fronte di una media Ocse del 18. Molti giovani non vogliono lavorare nella Pubblica amministrazione, non credono che sia attrattiva, e credono che il merito non sia un criterio di selezione e di crescita all’interno dell’amministrazione pubblica. Questo naturalmente è un problema enorme per il nostro paese ma l’immissione di giovani in realtà è solo una delle linee da seguire per riformare la Pubblica amministrazione, ma non basta e non basterà immettere giovani. Faccio solo un esempio, noi abbiamo 38 mila stazioni appaltanti. Anche ad assumere mille, diecimila esperti – a trovarli con gare pubbliche, la gestione delle gare pubbliche ha un tasso di complessità elevatissimo – significa che si immetterebbe un giovane esperto per una su tre stazioni appaltanti. E’ chiaro che occorre una riorganizzazione del settore e una riduzione della polverizzazione delle stazioni appaltanti. Un primo passo è stato fatto: nel decreto legge che ha delineato la governance del Piano nazionale si è previsto che i comuni non capoluogo non possono gestire appalti da soli, ma devono affidare la gestione degli appalti a soggetti più robusti, a centrali di committenza. Credo che sia stato questo un primo timido passo verso una razionalizzazione del settore”.


Siamo certi che a Palazzo Chigi non se ne parlerà, ma nella programmazione a lungo termine del governo Draghi c’è un problema non da poco legato a ciò che accadrà a febbraio quando si sceglierà il successore di Sergio Mattarella. Ci può dire se la programmazione a lungo termine di questo governo si ferma prima di febbraio o arriva a dopo febbraio?

“Di questo a Palazzo Chigi non si è mai detto nulla, la programmazione del Piano ovviamente giunge al 2026 e nel Piano ci sono tappe temporali mese per mese fino al 2026. E direi che quello è il programma di governo del paese”.


Dire 2026 significa dire che il programma dei prossimi governi è in qualche modo è già scritto all’interno del famoso Pnrr. Ma il prossimo governo, quello che arriverà nel 2023 o nel 2022, sarà un governo che avrà davvero un margine d’azione per poter cambiare ciò che oggi è stato programmato o l’Italia si trova su un binario di fronte al quale può al massimo accelerare o decelerare, ma con un percorso ormai segnato?

“L’Italia non può decelerare, perché il piano ha dei target con delle indicazioni temporali da rispettare e ci sono progetti che vanno messi in cantiere, che vanno definiti e poi vanno attuati. Ma io mi auguro che nessun governo ponga in discussione tutto questo, perché è un’occasione irripetibile per il nostro paese. Naturalmente tutto questo non toglie che ci siano margini di politiche pubbliche diverse. Il piano ne definisce alcune ma lascia ovviamente assoluta libertà su molti altri fronti al nostro paese”.


Lei ha detto che la Pubblica amministrazione e la burocrazia devono dare una prova di crescita e di maturità. Possiamo dire, e lo chiediamo al Garofoli magistrato, che lo stesso discorso vale al quadrato anche per il mondo della magistratura?

“Sì, anche al cubo direi. Io sono un magistrato e non ho mai smesso di sentirmi tale nonostante queste pause di governo. Appena stamattina (sabato, ndr) parlavo ai colleghi della Corte dei Conti e in chiusura ho detto che ciò che è necessario per il nostro paese è un approccio originale alla modernizzazione delle istituzioni pubbliche, di tutte le istituzioni pubbliche. Io credo che anche noi magistrati dobbiamo avere questo approccio originale e innovativo. Alla Corte dei Conti c’è stato tutto questo dibattito sulla parziale eliminazione della colpa grave dal perimetro della responsabilità erariale, che è quella che i colleghi della Corte dei Conti accertano. Questo ha innescato un dibattito fortissimo, vivacissimo nel mondo dei giuristi di quel settore. E io penso che in quel mondo è necessaria, come nel nostro, come in quello della magistratura ordinaria, una predisposizione al cambiamento. Per esempio, le amministrazioni pubbliche, attestata la loro debolezza, hanno bisogno e reclamano un atteggiamento collaborativo della Corte dei Conti, nell’esercizio di una funzione consultiva per le amministrazioni. E un’evoluzione di questo tipo, ferma la distinzione dei ruoli tra chi deve decidere e chi deve conciliare, è qualcosa che la magistratura contabile deve necessariamente valutare con molta attenzione”.


Noi naturalmente ci riferivamo a un altro ambito della magistratura… “Avevo intuito…”. 


Ci riproviamo. C’è un aggettivo che lei userebbe per sintetizzare lo show offerto in questi mesi dalla magistratura di cui stiamo parlando?

“No. Questo non lo dico e non lo dirò mai: non compete a me commentare. Quello che so però, perché provengo dalla magistratura ordinaria, è che si tratta di un corpo che il paese deve sapere apprezzare, perché dotato di professionalità elevate, elevatissime. Naturalmente c’è molto da lavorare, da migliorare, ma questo vale per tutte le istituzioni”.


Ci può dire come governano partiti così diversi tra di loro, Pd e Lega insieme? E’ davvero così difficile farli andare d’accordo oppure vanno più d’accordo di quanto loro stessi raccontino?

“Dall’interno vanno molto più d’accordo di quello di cui si racconta, nel senso che io penso che nelle forze politiche vi sia consapevolezza dell’eccezionalità del momento. Poi certo, siamo sotto appuntamenti elettorali, ma io credo nel senso di responsabilità delle  forze politiche, consapevoli della necessità di un percorso comune. Una responsabilità che hanno mostrato in questi anni   innanzitutto i cittadini e che deve essere   ripagata, e credo che le forze politiche che compongono questo governo, le forze politiche in generale del paese, un senso di responsabilità l’abbiano mostrato. Noi dall’interno lo vediamo tutte le settimane, perché punti d’intesa si raggiungono, e non mi pare che siano punti di intesa al ribasso, almeno partendo dalle prospettive da cui muove il governo. Saranno necessari nei prossimi anni cooperazione e senso di responsabilità, passando dalla politica alle istituzioni tra i livelli di governo del paese, perché senza una cooperazione tra stato e territori sarà difficilissimo attuare l’ambizioso piano delle riforme e dei progetti. E questo peraltro è anche il senso della presenza delle regioni e dei comuni in quella cabina di regia che attiveremo nei prossimi giorni e che coordinerà e monitorerà l’attuazione del piano”.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.