il foglio del lunedì
Democrazia in altalena. Un clic la ucciderà?
Quelli che pensano che un referendum digitale la metta in pericolo e quelli che temono che a svuotarla saranno le “spinte gentili” con cui i governi (e i Draghi) la stanno trasformando. Alla base c’è una crisi vera e profonda, lo sapeva già Tucidide. Un’inchiesta
Buster Keaton non avrebbe saputo fare di meglio. Il filmino muto della sardina in chief (muto in quanto lestamente rimosso: è la politica dell’immediatezza) che va contromano sulla corsia degli autobus per denunciare l’illegalità del traffico, e persino l’illegalità libberista delle partite di calcio, è l’icona che meglio sintetizza il punto, probabilmente di non ritorno, del nostro dibattito politico. Allo sprofondo. Mattia Santoni sarebbe un perfetto Buster Keaton stralunato, se solo ne fosse consapevole: la sua gag involontaria riassume alla perfezione il massimo di incompetenza e il massimo di presunzione nelle capacità taumaturgiche della politica dal basso. Della democrazia diretta. Lo spontaneismo, che era già un danno irreparabile ai tempi delle assemblee a scuola, nell’èra digitale viene considerato da molti la via d’uscita salvifica da una politica che non sa più fare ciò che dovrebbe fare. Sull’altro fronte politico rispetto alla sardina, ma pur sempre dalla stessa parte della vita digitale, c’è Luca Morisi, più simile a un Bela Lugosi padano che a Buster Keaton. L’inventore della “Bestia” di Matteo Salvini, la macchina da propaganda e salami che sembrava invincibile. Si è dimesso, a una settimana dal voto. Fine corsa. Del resto la comunicazione social del Capitano perde colpi: “Va’, va’, povero untorello. Non sarà un tweet quello che spianta Milano”, avrebbe commentato don Lisander.
In un altrove apparentemente lontano, eppure incredibilmente vicino, c’è un paese meno digitale e più reale, il paese di quelli felici di andare al Dall’Ara a vedere il Bologna senza aspettare l’ingorgo della domenica pomeriggio. Il paese dei lavoratori e degli imprenditori, dei vaccinati e dei guariti, dei green passisti per nulla turbati dall’esibizione, mica è la stella gialla; dei produttori di reddito, perché senza quello non ci sono manco i diritti, e persino l’Italia dei percettori di cittadinanza. Un paese che si sta adeguando con raziocinio e disincanto a fare ciò che gli viene chiesto, a comportarsi come gli viene spiegato. A rispettare qualche regola, a usare la fattura elettronica. A offrire la propria tracciabilità quando serve. E se tutte queste indicazioni, queste “spinte gentili” (sull’espressione torneremo poi) arrivano da un governo di stato di necessità, da un premier designato e non eletto, che ha sempre meno l’obbligo di accordarsi con i partiti, di dar retta al Parlamento, pazienza. Anzi meglio. Del resto non accade soltanto nel nostro felice paese dei balocchi. Accade lo stesso il Francia. Ogni volta che Macron prova a fare la faccia cattiva c’è qualcuno che si mette a ridere, ma poi si adegua al risultato. Accade in Gran Bretagna, dove le pulsioni anarco-autoritarie di BoJo stanno producendo magnifici, e un po’ schizofrenici, risultati di stabilità sociale. I tedeschi la disciplina l’hanno scritta nel destino, persino quando fomentano pulsioni antisistema. Persino Sleepy Joe, che pure ha mollato gli afghani per il più cinico dei tornaconti di consenso interno, su tutto il resto applica una guida morbida (from behind?) dell’opinione pubblica. Gli americani, non solo in Texas, sono sempre sospettosi del Big government, digeriscono male persino le vaccinazioni, ma a poco a poco fanno quel che viene loro tacitamente richiesto. Per tornare a noi, il vaccino l’ha fatto pure Meloni, il green pass l’ha votato pure Salvini. La mascherina abbiamo imparato a tenerla nei luoghi chiusi affollati, è un automatismo che è già un cambio d’epoca, anche se all’aria aperta ce ne disfiamo subito: saggi sì, ipocondriaci no. Abbiamo introiettato che è meglio l’auto elettrica, a poterla comprare.
Su questa quasi impercettibile altalena tra due versioni svuotate, depotenziate, anestetizzate o strapazzate della democrazia così come l’avevamo intesa per quasi un secolo, in questo scontro di visioni che meriterebbe una verifica dei poteri, si nasconde una questione decisiva. Più di quanto non lo sia la legalizzazione referendaria della cannabis, o l’imposizione del pass per decreto. Per il futuro delle nostre società è una partita cruciale: paternalismo liberale vs libertarismo da scappati di casa. Da una parte un’idea di democrazia sempre più istantanea, disintermediata, potenziata dalla dimensione digitale, individualista anche quando predica il senso della community (la solitudine degli account: tema lagnoso molto di moda nella pandemia).
Sul punto opposto dell’altalena c’è l’idea che occorra invece una guida, un certo polso, per quanto non autoritario, nell’indirizzare scelte e comportamenti bilanciando opportunità e rischi collettivi. Cessione di quote individuali per un minor male comune (il bene comune lo lasciamo ad altre retoriche). Gli americani, che hanno il cielo stellato dentro di sé e l’anarco-federalismo come emendamento supremo, stentano con le nuove regole della democrazia sanitaria. In Europa siamo più abituati alla cessione consensuale di diritti, la puzza di dittatura la sentono solo i filosofi matti e i QAnonici clericali. Ma nel mezzo, terribile e imponente come un vulcano che implode dopo l’ultima eruzione, c’è la democrazia come l’abbiamo conosciuta. La democrazia rappresentativa.
Riavvolgiamo il nastro. “Cliccocrazia” ha titolato qualche giorno fa il Giornale diretto da Augusto Minzolini, gran conoscitore della politica di vecchia scuola liberale. Titolo vagamente orwelliano, allarmato dal boom delle firme online per i referendum: 500 mila in pochi giorni per il referendum sulla cannabis, altrettante per l’eutanasia. Due tabù su cui la politica – ritenendo di interpretare la società, o almeno l’interesse del proprio elettorato – non si è mai espressa. E che ora la facilità del digitale ha fatto esplodere al centro dell’agenda. Un successo della democrazia diretta – o della democrazia tout-court contro un sistema bloccato, hanno detto in molti. Il rischio che diventi tutto troppo facile e irriflessivo, secondo altri. In realtà la possibilità appena introdotta delle firme digitali è frutto di un emendamento presentato da Riccardo Magi, radicale e deputato di +Europa, ed è stato votato all’unanimità. Perché lamentarsi ora? Inoltre le firme sono certificate con lo Spid, non da Rousseau, e Vittorio Colao ha promesso a breve una piattaforma dedicata e gratuita per i comitati (ovviamente gratuita significa che la pagano i cittadini, ed è giusto: spiegatelo ai populisti che organizzavano referendum per abolire il finanziamento della politica). Il meccanismo attuale, in ogni caso, non rende così semplice e incontrollata la raccolta e la verifica delle firme. I problemi però non sono solo digitali. Secondo Lavoce.info, ripresa dal Post, nel 1948 gli elettori italiani erano 30 milioni e oggi circa 50 milioni. La soglia di 500 mila firme oggi sarebbe da aggiornare a quota 920 mila. La nuova modalità ha più vantaggi che svantaggi, la questione è invece culturale: l’accesso tramite rete non rischia di facilitare un tipo di scelte meno ponderate? Molti dicono di no, ma gli effetti nefasti di troll e fake news nelle elezioni in molti paesi sono noti.
Negli stessi giorni in cui il Giornale lanciava l’allarme clic il Manifesto titolava invece: “A strascico”. Mettendo sotto accusa le quattro fiducie ravvicinate che il governo Draghi ha posto, e incassato, senza nemmeno fingere una contrattazione politica vecchia maniera. Lo svuotamento della democrazia parlamentare, del ruolo dei partiti: la stessa preoccupazione del Giornale, ma vista da una prospettiva opposta. Al centro, per il Manifesto, c’è Mario Draghi. O quantomeno il processo politico e decisionale di cui è interprete, guida e garante unico. Un Draghi che nell’immaginario collettivo e nella lettura di alcuni analisti sta trapassando dal carismatico “Whatever it takes” del presidente della Bce a un mai pronunciato, eppure sonoro, “Whatever it works”, basta che funzioni. Preso in prestito da Woody Allen, ma senza alcuna ironia: non c’è tempo per i dibattiti, quelli li fanno i partiti, non ci sono piani alternativi, il mio ruolo è agire. E fare che tutto funzioni. “Uomo della necessità”, lo ha definito il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Draghi ha prodotto una sorta di sospensione della politica. L’autorità indiscussa e illimitata di cui dispone può persino preoccupare gli scrutatori del futuro. Ma c’è qualcosa di più, che supera anche il portato di una biografia non ordinaria: il modus operandi di Draghi è l’epifania di una crisi della democrazia tradizionale. E anche del concetto di leadership, così pacchiano e abborracciato, come lo abbiamo conosciuto durante la Seconda Repubblica. Sarà per questo che i leader di partito sono nervosi?
Ma siamo il meraviglioso paese in cui ogni notte il matto sulla collina indica la luna, e tutti i fessi del villaggio guardano il dito e non la luna. L’avvocato del popolo Giuseppe Conte s’è sentito in dovere di rispondere a quel niente travestito da tribuno del popolo di Fedez (con rispetto parlando per l’artista) che lo ha accusato di lesa democrazia perché lui può fare i comizi con l’assembramento e invece gli artisti i concerti assembrati non li possono fare. Indipendentemente dal problema, che qualcuno dovrebbe affrontare: che un aspirante capo politico debba tener conto di un flusso social fino a doversi scusare di avere un elettorato in carne e ossa, è pura follia. O meglio: è il segno che lo svuotamento della democrazia, sul lato digitale dell’altalena, è già compiuto. Ma una retorica melliflua preferisce guardare il dito e non la luna. Sui referendum fatti col clic e con la carica dei giovani ci si è fermati al décor, al flusso emozionale. Nicola Lagioia, scrittore laureato e con un ruolo istituzionale, dirige il Salone del Libro, ha regalato a Repubblica idee particolarmente banali: “C’è in questo momento un enorme debito di riconoscenza che gli adulti hanno nei confronti dei giovani”, “giovani responsabili e adulti teenager, un rovesciamento evidentissimo”. Invece di sviolinare su un fattore generazionale tutto da verificare, sarebbe stato più interessante domandarsi che cosa cambia nel nuovo paradigma politico. Che poi sarebbe il tema: il cambiamento profondo che il referendum col clic, più che provocare, ha messo sotto il naso di tutti. E che tema.
Mattia Feltri, direttore dell’Huffington Post e titolare del Buongiorno sulla Stampa, sbuffa al solo vedere che il dibattito è ridotto a clic sì o no. Dei disastri provocati dalla tracimazione dell’ignoranza sulla scena pubblica, della pericolosa amplificazione offerta dai social dove ci si muove in branco, Feltri ha scritto spesso. Con acutezza, con amarezza. Ma sul clic, e su altro, non si accoda all’opportunismo conservatore: “Questa deriva della democrazia di cui parliamo sempre, questo pericolo populista contro cui ora si grida, fuori tempo massimo, sono stati voluti e prodotti dalla classe dirigente. Persino la norma sulla raccolta firme digitale l’hanno votata loro: di che si lamentano? Ma è soprattutto una questione di realtà: comunque la si pensi, la depenalizzazione della cannabis si impone da anni, ha riempito le carceri, è un rischio per i giovani. Per quanti anni ancora la politica avrebbe avuto paura di decidere? Idem l’eutanasia”. La prima responsabilità è dunque di chi ha abdicato? “Lo spiego così: i competenti, che dovrebbero essere quelli che eleggiamo per risolvere i problemi, hanno deciso di rinunciare a esercitare la loro competenza per affrontare le questioni importanti perché preferiscono, invece di essere competenti, essere popolari. Di conseguenza, inevitabile, a occuparsi delle questioni importanti ora è il sentimento popolare”. Se poi aggiungiamo la rinuncia a selezionare la classe politica, il disastro è fatto: “Vedi, abbiamo rinunciato a scegliere i competenti, preferendo gli onesti…”.
E’ inutile denunciare con orrore la deriva populista, “perché la politica non permette i vuoti, se i partiti fuggono arrivano altri a riempirlo. E’ la dimostrazione che è stata la classe dirigente a produrre il populismo. Ora si ragiona ad esempio di alzare la soglia delle firme, come se questo possa riportare indietro una cosa che è già accaduta: perché il digitale esiste, e perché è sono i partiti che hanno rinunciato al loro ruolo. Se metti la soglia a 800 mila, in due giorni le firme saranno un milione, lo sappiamo già”. Non tutti concordano. Matteo Renzi, che pure di spinte dal basso alla politica se ne intende, dai tempi del successo social della Leopolda, è scettico: “E’ una rivoluzione ma non deve passare il principio che tutto passi fuori dal Parlamento. Mettere fuori i partiti dalle grandi decisioni della politica significa che il maitre à penser diventa Fedez”.
Tenendosi lontani dagli incubi orwelliani e dalle utopie partecipative, si dovranno prima o poi valutare le opportunità e richieste che il nuovo mondo mette davanti alla vecchia democrazia. Servono buona osservazione e un po’ di disincanto, come quelli di Paolo Landi, esperto di lunga data di comunicazione e autore di un libro acuto sul social più determinante (anche in politica, per i pochi che lo hanno saputo usare) degli ultimi anni: “Instagram al tramonto” (La nave di Teseo). Parte da una constatazione che riporta al “cultural divide” del nostro paese: “E-democracy è un neologismo che risale a trent’anni fa, e siamo ancora a uno stadio primordiale. Lo ha dimostrato Rousseau: ha avuto il merito di porre il problema della partecipazione democratica attraverso la tecnologia. Ma non puoi chiedere maturità di scelta al popolo, che la cosiddetta democrazia elettronica coinvolgerebbe addirittura in una funzione ‘legislativa’, se alle competenze tecniche non aggiungi una visione politica”. Il mondo, persino l’Italia, però evolveranno verso un ruolo sempre più incisivo del digitale nei processi decisionali: perché avere paura di una inevitabile crescita della democrazia diretta, a scapito delle liturgie partitiche o parlamentari? “Il digital divide non riguarda più, come una volta, le competenze per usare uno smartphone – dice Landi – La vera divisione è tra masse sempre più preda della superficialità cui questi strumenti indirizzano e una classe politica che, invece di farsi carico della formazione del popolo, una delle più alte missioni della politica migliore, lo blandisce parlando alla sua pancia”. La democrazia digitale, conclude Landi, è oggi prevalentemente populista. Ma è solo l’inizio e è inevitabile che le cose cambieranno, perché “la democrazia digitale pone fortemente il tema dell’élite, di quale classe dirigente governerà il paese nelle sue ramificazioni comunitarie, dalla politica all’impresa”.
Che il male sia la democrazia del clic è dunque da verificare. Anche se il punto più profondo riguarda la capacità di informarsi e di riflettere. I figli di Pannella hanno sempre avuto un motto, “conoscere per deliberare”. Nel caso di firma digitale questo dovere di conoscenza deliberativa non rischia di essere inferiore? La domanda c’è, inutile negarlo, a meno di voler sostenere che tutti coloro che appongono una firma digitale abbiano letto tutte le schermate, e si siano formati anche fuori dalla rete una opinione solida. Non è necessario essere misoneisti e codini per vedere che cosa ha prodotto in molti paesi la politica digitale. Gli stessi colossi del web hanno dovuto accettare sistemi di controllo perché la disinformazione è un rischio troppo grave. Così si corre ai ripari, chi con la demonizzazione e chi con suggerimenti per modificare, ad esempio, le regole referendarie. Tra le più interessanti, la proposta di Stefano Ceccanti e Dario Parrini, deputati del Pd, per alzare le firme necessarie a 800 mila, anticipare il vaglio della Corte costituzionale abbassando al contempo il quorum di validità: dal 50 per cento più uno degli aventi diritto al voto al 50 per cento più uno dei votanti alle ultime politiche, in modo da tener conto dei tassi reali di astensionismo. Ma si può impedire una spinta alla semplificazione dei sistemi decisionali che è insita nel nostro modo di vivere? Nel nostro accesso ai dati, nella rapidità con cui facciamo un acquisto, mettiamo un like? E’ significativo che le notazioni di Mattia Feltri sulla autoliquidazione della politica coincidano in parte con quelle espresse sul Manifesto da un costituzionalista come Massimo Villone, a lungo senatore di Pds-Ds. Afferma il professore che la debolezza e lo svuotamento della democrazia parlamentare vengono da lontano, la colpa non è certo dal digitale. Sono state volute da chi ora gestisce la cosa pubblica, e passivamente accettate da opposizioni che non si sono opposte. (Il tic di sinistra non manca, ad esempio quando Villone paventa un futuro in cui a servirsi di questa democrazia “guidata” e della debolezza parlamentare potrebbe essere non più un “conservatorismo morbido”, à la Draghi. Ma il timore non sarebbe lo stesso di fronte a un governo “landinista”?).
Il centro della critica è lo svuotamento dal suo interno della democrazia: perché lamentarsi allora oggi, come se fosse in corso un golpe, se i cittadini si riprendono spazi attraverso la pratica referendaria e una innovazione digitale che non può essere solo demonizzata? La posta in palio non è dunque il clic, e nemmeno la cannabis, e nemmeno il paventato referendum sul green pass, che non si farà perché non ha basi costituzionali e perché quel che si è visto finora è pura propaganda internettiana. Il problema è la democrazia. Da un lato c’è il suo superamento contemporaneo a destra e a sinistra: quelli per cui se la democrazia rappresentativa è fallita, è meglio lasciare spazio a espressioni di una democrazia sostanziale. Ed eccoci alla stagione referendaria, con qualche inevitabile strumentalizzazione. La destra è più per le elezioni politiche (il vecchio Bossi stravedeva per la “gabina” elettorale), ma Salvini si è lanciato nei quesiti sulla giustizia. Nel mondo radicale e di sinistra, c’è chi ha già evocato il ruolo di Mariotto Segni nello scardinamento della Prima Repubblica, che andò molto più in là del quesito sul sistema elettorale. Se oggi la politica è bloccata e non si vede all’orizzonte un nuovo quadro partitico, perché non partire da fuori per scuotere il Palazzo? Entro certi limiti è una logica stringente. Ma c’è anche un non trascurabile problema di lungimiranza: i referendum, in quanto abrogativi, tagliano i problemi con l’accetta. Non aiutano a gestire situazioni complesse né a equilibrare tendenze politiche o sociali diverse. Come ha detto il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick a Repubblica, “occorre trovare un punto di equilibrio che si fondi sulla democrazia rappresentativa”. E’ l’argomento più interessante, e anche scivoloso, che l’improvvisa fiammata referendaria estiva ha riacceso. E’ il tema della modifica costituzionale della normativa sui referendum popolari, grazie alla legge che introdurrebbe il referendum propositivo. Questo sì è un aspetto che farebbe slittare e di molto i confini tra popolo e istituzioni. Non è un caso che i primi a rilanciare siano stati i Cinque stelle: “Apprezziamo il contagioso entusiasmo per lo strumento del referendum, da sempre sostenuto dal Movimento 5 stelle”, ha detto Giuseppe Brescia, presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, al momento del voto sull’emendamento del radicale Magi. E subito hanno rilanciato sulla legge, varata al tempo del governo gialloverde “che prevede anche l’introduzione del referendum propositivo e un nuovo quorum, più basso. Diamo ai cittadini non solo la possibilità di cancellare norme, ma anche di proporre soluzioni in maniera più compiuta”. Perché, per tornare al tema del suicidio della classe dirigente, la legge che istituisce i referendum propositivi è stata approvata nel febbraio 2019, con l’appoggio del Pd anche se ora giace in attesa di via libera.
Il Foglio aveva avanzato qualche caveat sulla legge, sul rischio, poi evitato, del “quorum zero”. Tra gli aspetti più spigolosi, figli diretti della concezione barbaricina e meccanicistica della democrazia propria della banda Casaleggio, c’era un aspetto molto politico: nel caso il Parlamento non riuscisse a deliberare nel tempo dato, dovrebbe accettare il contenuto proposto dai referendari, senza possibilità di mediazioni. In questo modo il Parlamento diverrebbe davvero il mero esecutore di deliberazioni che vengono dall’esterno, e addio democrazia rappresentativa. “Maneggiare con cura”, scriveva il Foglio. La legge si è poi arenata nelle secche parlamentari. Ma è significativo che oggi l’argomento riprenda quota.
Resta ovviamente il fatto che la democrazia diretta non è quella pericolosa pazzia immaginata dal fu Casaleggio e malamente vellicata da interi settori della sinistra. Ogni paese che adotti in modo robusto il sistema del referendum ha le sue precauzioni. Negli Stati Uniti, le proposition che accompagnano le elezioni presidenziali hanno pertinenza statale, non federale. Spesso il successo di alcuni temi fornisce indicazioni sull’orientamento sociale dell’intero paese, ma c’è poi sempre il filtro federale, e ogni stato è geloso della sua autonomia. In Svizzera, il paese referendario per antonomasia, è la stessa struttura iper localistica a porre freni decisivi al successo delle proposte. La Confederazione è uno dei paesi più avanzati al mondo in fatto di gestione dei dati digitali e della loro sicurezza, e non soltanto per ciò che riguarda la finanza. Il cantone di Zug è soprannominato “Crypto Valley” perché lì si producono le migliori innovazioni sulla sicurezza informatica. Eppure, in Svizzera la e-democracy ha proceduto a ritmi più lenti che in altri paesi, come il Portogallo o l’Estonia, proprio perché la frammentazione locale rifiuta il funzionamento erga omnes che è invece implicito nel concetto di piattaforma. Paradossalmente, il federalismo e il localismo così tanto invocati come totem della democrazia diretta sono un freno – o un bilanciamento, secondo una visione più conservatrice – per l’innovazione digitale. Il disastro della Brexit è stato generato da un referendum piuttosto sconsiderato, per quanto in modalità tradizionale. Ma decine di inchieste sul campo hanno chiarito quanto sia stata determinante, e nociva per l’opinione pubblica, l’influenza dei social media gestiti in modo spregiudicato.
Il destino della democrazia non è appeso ai clic, c’è una debolezza interna che si manifesta in modo meno irruente, ma altrettanto decisivo. In Italia il problema è sotto gli occhi di tutti e tanto più grave. Giudice emerito della Corte costituzionale e grande esperto dei sistemi amministrativi e di governo, Sabino Cassese ha appena dato alle stampe un breve saggio dedicato agli “Intellettuali” (Il Mulino), chiedendosi se abbiano ancora un ruolo educativo nelle società. Mette sotto la lente appunto il tema della democrazia. Spiega, con un breve excursus, come in tutte le forme storiche di democrazia vi sia una essenziale “componente epistocratica (nel senso del governo dei competenti e dei tecnici)”. Eliminata la democrazia per censo (oggi sarebbe liquidata come “delle élite”), la democrazia rappresentativa ha fallito, o si è dimostrata vulnerabile, in quanto non garantisce un voto basato né sul “kratos”, la ricchezza, né sulla “aretè”, la qualità morale, né sulla “episteme”, cioè sulla competenza. E’ il nocciolo della faccenda: la questione vera non è chi possa accedere alla democrazia diretta, cioè raccogliere in modo facile ed estensivo il consenso – nello stesso modo in cui lo fa Amazon: “funziona meglio” – ma è come si possa esercitare un controllo di qualità. Un tempo questo filtro, spiega Cassese, spettava agli intellettuali. Che nell’epoca dei grandi partiti di massa servivano a pre-formare l’opinione dei ceti meno istruiti, chiamati però a scegliere a chi affidare le leve della deliberazione: si selezionava così una classe politica competente. Ora non esiste più questo filtro e “per la diffusione delle istanze populistiche molte classi dirigenti hanno raggiunto un grado di mediocrità tale da suscitare reazioni antidemocratiche”. E’ l’uno che vale uno. Il difetto della democrazia diretta – o anche solo dominata dai social e dai media – così intesa è che distrugge l’unico rimedio che la democrazia rappresentativa aveva trovato ai suoi limiti: quello dei partiti che formavano la “epistocrazia”, la classe dei competenti.
C’è un’altra risposta, in cima alla corsa opposta dell’altalena. A molti piace chiamarla “gentile”. Chissà se lo è. A tutte le latitudini occidentali, e da poco più di un anno in Italia, si sta provando a governare con il “nudge”, le “spinta gentile”. Il bastone travestito da carota. E’ un noto concetto dell’economia comportamentale (il suo inventore Richard H. Thaler ci ha vinto un Nobel) che consiste nell’indirizzare le scelte del consumatore (elettore?) verso l’opzione migliore, più utile in senso generale, facendogli intendere che comportamenti diversi saranno sanzionati. Non far vedere la mano che governa, quella che sceglie e che spinge. Ma farla sentire. La nuova mano invisibile non è più quella del mercato, anzi persino il mercato è oggi quantomai guidato dalla politica. La nuova mano invisibile è quella che indirizza l’opinione pubblica. La Nudge Theory, oggetto di un celebre libro scritto da Thaler assieme a Cass Sunstein, mitico consulente di strategie amministrative di Barack Obama (“Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità”, Feltrinelli) piace molto a che ritiene necessario rivestire la zoppicante democrazia elettorale di un “paternalismo libertario”, o per meglio dire liberaleggiante, in grado di gestire meglio la complessità dei fenomeni sociali ed economici. La pandemia sembra essere venuta apposta per convincere gli indecisi della validità del progetto (complotto!).
Riassumendo in modo grossolano, i due autori spiegano come nella psiche personale e sociale ci sia un elemento riflessivo e deliberativo e uno più debole e gregario, la “mentalità del gregge”. Le persone sono fortemente influenzate dalle azioni degli altri, e il segreto del successo delle classi dirigenti è saper unificare i comportamenti attraverso scelte che non siano nocive o contraddittorie con l’interesse generale. Applicato ai nostri giorni, è la restrizione volontaria di libertà individuali in vista di un vantaggio personale e collettivo. Il filosofo francese Pierre-Henri Tavoillot, autore di un saggio ai tempi dei gilet gialli dal titolo “Come governare un popolo-re”, ha detto in un’intervista che “confondere l’obbedienza e la dittatura significa rendere impossibile la vita comune”. Applicato alla particolare situazione politica italiana, Draghi con la sua postura perfino fisica, i suoi sorrisi sornioni, la cortesia che non ha bisogno di essere studiata interpreta alla perfezione il nudge, la spinta gentile. Può essere la soluzione, o un rischio. Ma il golpe non è dietro l’angolo, c’è solo il nudge, il volto razionale della democrazia. L’altra faccia di Giano di questo paternalismo democratico sarebbe il libertarismo degli scappati di casa.
Luciano Canfora, con la sua candida zazzera da philosophe settecentesco, è un prolifico filologo classico e un polemista raffinato, e soprattutto non scrive mai per il passato: nei suoi libri c’è sempre una sferzante nota di attualità. Nel suo ultimo saggio, presentato con ampiezza da Paolo Mieli sul Corriere, “Tucidide e il colpo di stato” (Il Mulino), Canfora analizza la ricostruzione fatta da Tucidide due millenni e mezzo fa – puntigliosissima e quasi fosse testimone partecipe dei fatti, anziché in esilio come vuole la tradizione – del “colpo di stato” che nel giugno del 411 a. C. soppresse la Boulé, una sorta di parlamento di 500 membri, organo super proporzionale i cui membri erano sorteggiati tra i demi, per sostituirlo con uno di 400 membri, non più sorteggiati ma nominati (c’è sempre un taglio dei parlamentari, nelle crisi della democrazia?). Secondo la lettura di Canfora, Tucidide conosce così bene quei fatti perché fu parte attiva del fronte golpista: cioè favorevole a una svolta pesantemente oligarchica che chiudeva l’epoca di una democrazia (proporzionale, rappresentativa) che aveva mostrato troppi limiti. La spinta ateniese non fu proprio gentile, ma il risultato fu chiaro. Il tutto, nota Mieli, nell’indifferenza del demos: la democrazia si esaurisce quando al popolo comincia a non interessare più. Piccolo particolare: la Boulé dei 400 durò solo pochi mesi, poi fu mandata a casa da una controrivoluzione (democratica? populista?) che instaurò una pletorica Assemblea dei Cinquemila. Chissà se votavano con un clic.