Il racconto
La sera andavamo al Viminale: feste, potere e caduta di Salvini & Co.
Il leader della Lega è solo: lo inseguono i fantasmi di Giorgetti, lo attendono le urne domenica. Storia di una scalata finita male
Morisi, Paganella e gli altri. Dai fasti al ministero dell'Interno alla dissoluzione di un gruppo che per un momento ha comandato il paese
Era uno e trino: ministro, vicepremier e grande capo. Adesso è solo. “De plus en plus isolé en Italie”, secondo Le Monde. Si sparava le dirette social dal tetto del Viminale. Ora è costretto ad andare in tv. A essere tollerante più che garantista nei confronti dell’amico fragile. Girava l’Italia. Faceva scorpacciate di immigrati. Fermava barconi. Acchitava comizi ovunque. Lo contestavano i centri sociali e i balconi, mica Giancarlo Giorgetti. Era un brand. Lo consigliava Luca Morisi, lo gestiva Andrea Paganella. La Bestia. Uno staff da Scià di Persia. Le feste nell’appartamento del ministero. Odore di zolfo. Curve nella memoria. La sera andavamo al Viminale. Che fu la Via Veneto del salvinismo.
Salvini scavalcava montagne, brandiva rosari e forti princìpi. Al Viminale, quando passava, i prefetti e dirigenti si mettevano in coda per ore. Non volevano un selfie.
Ma solo parlargli. Pratiche arretrate. Una firma, Matteo. Il secondo piano del ministero, a ferro di cavallo, era occupato militarmente dai suoi ragazzi. Quelli della Bestia, diventata acefala. A loro toccava la sobrietà della grisaglia. Maneggiavano cellulari come katane. Analizzavano dati. Studiavano flussi. Arrivavano i voti. Jackpot! Stavano sempre insieme, anche per il bicchiere della staffa Morisi era il social media manager, Andrea Paganella, il manager. Il potente capo segreteria. Colui che lo gestiva e lo gestisce. Lo chiamano “Mino Raiola”.
Adesso i parlamentari leghisti mugugnano. Vorrebbero che saltasse anche lui. Come il genietto tormentato, l’altro mantovano. Come Claudio Durigon, nipote di coloni con storia e nostalgie. Nel Carroccio c’è chi invoca un’altra notte delle scope. Pulizia. Come fece Roberto Maroni con il bossismo. Questi fantasmi inseguono Salvini, le elezioni amministrative lo aspettano. Giorgia Meloni non infierisce. Le serve per il futuro comunque una spalla. Il centrodestra traballa come una zattera sul voto dei comuni. Salvini dice in giro che stavolta Giorgetti non lo perdona. L’uscita su Carlo Calenda a Roma lo ha costretto a mettere su in fretta e furia due conferenze stampa con gli altri leader della coalizione.
Domani tutti a Milano per Luca Bernardo e venerdì si va a Roma per Enrico Michetti. Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega, il partito dei problemi e dei tormenti. Dove la dimensione privata entra nella carne del leader. Eppure una volta, Salvini era un grande reality. Altro che Ferragnez. Aveva il tocco. Rideva. Alzava l’asticella. La droga del potere, la più pericolosa. Felpe e hybris. L’amore tormentato con Elisa Isoardi. Lo scatto pubblicato da lei, con lui stremato. L’addio. Il romanzo popolare. Il desiderio di essere come tutti. Più di tutti. Vizi e virtù. Passioni e debolezze. Tutto si teneva. E la miscela era stupefacente. Il Capitano. La foto con il mitra a Pasqua postata da Morisi. Il senso di onnipotenza. La goduria a far ballare Giuseppe Conte e i 5 Stelle. Era un format a reti unificate, campione di incassi.
Ieri a Milano un gruppo di contestatori ha accolto Salvini con un manifesto feroce: “Parlateci di pippiamo”. Battutaccia. Tuttavia nemmeno di Bibbiano, può parlare il capo leghista. Con il Pd ci governa. O meglio: ci governa Giorgetti, per lui ci sono i guai adesso da rincorrere. C’è solo la strada. Perde consensi come Pollicino e gira con una collezione di toppe da mettere qua e là. Prima c’era un partito leninista. Con dentro tutto e il suo contrario. Nessuno fiatava. Erano solo peana per Matteo. Adesso quando posta le sue interviste nella chat dei parlamentari della Lega quasi nessuno gli risponde. Si fanno la guerra tra loro. Come nei migliori partiti di sinistra. I colonnelli coltivano ambizioni nell’orto di Salvini. Perfino sul capogruppo alla Camera Riccardo Molinari i deputati dicono cattiverie. E raccontano, per esempio, che Giorgetti nel tour rutilante a Torino non se lo sia filato.
Una volta il partito era una calamita. In questa legislatura ha fatto incetta di transfughi. Ne ha soffiati al M5s tantissimi. Specie al Senato. Stefano Lucidi, che fu capogruppo del Movimento a Palazzo Madama, lo disse a Grillo, che lo aveva chiamato allarmato: “Mi spiace Beppe, ma preferisco Matteo. Non ci ripenso, ciao”. E come lui tanti. “Dietro alla porta ho la fila per entrare nella Lega”, ripeteva il leader-ministro-vicepremier. Era così. Adesso alla Camera in molti vogliono parlare con Giorgia. Scricchiolii da 25 luglio. Chi sta vicino a Salvini ripete con forza: “Sono una manica di irriconoscenti, segano il ramo dove sono seduti”. In mezzo lo schianto del Papeete: il gruppo perde il potere, le accuse di avere i consiglieri sbagliati.
Dissolvenza. La dolce vita romana è così lontana per il capo ammaccato. Quando i salotti e le feste lo reclamavano, e lui non si risparmiava. Quando gli bastava aprire il cellulare per riprendere il film del “ragazzo fortunato”, come diceva di sé. C’è un velo di tristezza in chi sta intorno a Salvini e assiste a questo schiaffo del soldato. Eppure la sera andavamo al Viminale.