le città al voto
Torino, la malinconica. Che fare dopo l'esperimento fallito del M5s?
La città delle transizioni incompiute rimugina: tornare all’usato sicuro del Pd o svoltare a destra? Damilano, campione del centrodestra “giorgettiano”, fa le ronde notturne. Il Pd punta al riscatto, ma accettando gli insulti di Appendino. E nel dubbio: tutti in periferia!
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Si dovesse giudicare da qui, si direbbe che la frenesia per l’imminente evento proprio non esiste. I pensionati che alla bocciofila di Pozzo Strada giocano a carte, s’accalorano solo quando si nominano Juric e Djidji, ma di portarli sulla politica non c’è verso. E se da questo quartierone alle porte occidentali della città – posto residenziale ceto medio che non sciala ma che neppure se la passa malissimo – si risale Corso Francia e si arriva in centro, l’incombenza del voto non la si percepisce lo stesso. Questi due ragazzi sulla ventina seduti al bar di Via Garibaldi, sgranano gli occhi quando gli si chiede un pronostico: “Ah già, che ci sono le elezioni”.
“E’ il segnale di un capoluogo malinconico, che la pandemia ha incattivito, facendo ripiegare ciascuno sul suo personalissimo quotidiano”, sospira Valentino Castellani, che di Torino è stato sindaco per buona parte degli anni Novanta, vincendo da civico quando il civismo non era ancora una moda. “Fare appassionare la gente alla politica, in questo clima, non è facile”. Invece Luca Pasquaretta dice che il problema è un altro. “E’ che qui in centro è inutile sondare. Chi doveva scegliere ha già scelto, e gli altri sanno che in ogni caso, chiunque vincerà, loro la sfangheranno comunque”. S’è reinventato, il portavoce storico di Chiara Appendino. Era celebre per le sue intemperanze caratteriali, per quei modi un poco in difetto di galateo che lo portavano a inveire coi cronisti indiscreti e che però tanto parevano divertire la sindaca grillina, che lo chiamava simpaticamente “il mio pitbull”. Poi certi inciampi giudiziari, Appendino costretta ad allontanarlo e lui che, stando alla Procura, la minaccia per farsi trovare un nuovo incarico. “Di Chiara non parlo – dice lui, che di questo quinquennio a cinque stelle a Palazzo di Città resterà uno dei personaggi più memorabili – anche perché parlano i sondaggi che danno il M5s sotto al 10 per cento”. Insomma, ne parla. Lo fa mentre passeggia di buon mattino sulla chiccosissima Via Lagrange, proprio a metà strada tra il Pastificio De Filippis e il Bar Zucca, i locali di Paolo Damilano, quelli da cui l’imprenditore delle acque minerali e del Barolo ha imparato a farsi conoscere alla meglio borghesia sabauda nell’ora dell’aperitivo ben prima che pensasse al grande salto in politica. “Vincerà al primo turno”, sentenzia Pasquaretta, che una nuova occupazione se l’è trovata da solo alla fine. “Faccio sondaggi basandomi sui sentiment online, lavorando con gli open data”, argomenta. E dunque non c’è storia, assicura. “Non tanto per il centro, ma perché in periferia la destra sbaraglierà la concorrenza”.
Forse allora è per questo che la ztl è così poco presidiata: specie dal Pd, che forse qui più che altrove la colpa di essersi accomodato nella bambagia dei salotti buoni se l’è sentita addosso come una condanna. E infatti il comitato elettorale di Stefano Lo Russo, candidato del centrosinistra, sta a piazza Dalpiano, alla congiunzione esatta di tre diverse circoscrizioni e in un posto che è un compendio della travagliata storia della città e delle sue trasformazioni. Perché qui, fino a trent’anni fa, i binari delle ferrovie che da ogni direzione arrivavano a Torino s’incrociavano in un quadrivio metallico che sprofondava scavando una trincea, e questa risaliva, fino a Porta Susa e ancora oltre, dividendo orribilmente i quartieri della città e le loro caste: la rilucente Crocetta a est, ville Liberty e giardini curatissimi; dirimpetto Borgo San Paolo, enclave rossa e operaia; a sud Santa Rita, impiegatizia e ugualmente colonizzata dai terroni, ma coi quadri medio-bassi della Fiat che ci tenevano a distinguersi dalle tute blu. “Poi anche da lì è partita la transizione”, racconta Castellani, che alla trasformazione di Torino da capoluogo del fordismo e del grigiume a metropoli che punta sulla cultura e sul turismo ha dato il primo avvio. E così il fossato ferroviario fu interrato, la voragine di piazza Dalpiano riempita, la frattura ricucita: venne fatto un parco giochi, un supermercato e due palazzine aristocratiche. Era la città che si preparava alle Olimpiadi del 2006, che cercava la sua nuova dimensione nel secolo nuovo. Però sul quarto lato della piazza resta un buco coperto di sterpaglie; pochi metri più in là, la fermata di Zappata, l’interscambio tra il nodo ferroviario e l’incompiuta linea 2 della metro, resta in attesa di essere attivata. Pronta, ma inservibile. “E qui sta la transizione interrotta”, prosegue Castellani. “Interrotta non tanto perché i fondi delle Olimpiadi invernali vennero gestiti male. Il punto è che quei cambiamenti così poderosi vennero finanziati a debito dalla giunta Chiamparino. E intendiamoci, era giusto farlo. Erano gli inizi del 2000, erano altri tempi. Poi due anni dopo i Giochi arrivò la crisi, bisognò rientrare e non ce la si fece”.
Di lì, l’impossibilità di proseguire. Di lì il ristagno rimproverato a Fassino. Di lì, nel 2006, la scelta dell’azzardo. “Si preferì il cambiamento, ritenuto comunque preferibile all’immobilismo”. Ed ecco Appendino a Palazzo di Città. Che era nuova, forse ingenua ma comunque fresca, che in un movimento di esagitati era pur sempre “la bocconiana”, la secchiona cresciuta negli uffici della Juventus di cui pareva che anche John Elkann dicesse un gran bene. “E magari – conclude Castellani – ha fatto anche cose buone, ma nel complesso ha dimostrato una sostanziale incompetenza”.
Un fallimento che è forse sintomo di una difficoltà più profonda, però, di Torino. “Questa è una città che vive perennemente nell’attesa di Godot”, dice Paolo Giovine, imprenditore appassionato di innovazione, già dirigente di Kataweb e di Radio Deejay, che dopo molto aver girato per l’Europa ha deciso di tornare qui, a casa sua, a investire nella produzione di libri digitali. “E’ una città – prosegue – sospesa da anni tra questa perennemente esibita propensione al futuro, e la sua autoreferenzialità”. E infatti la centrale di produzione di batterie elettriche, Stellantis ha rinunciato a impiantarla sotto la Mole e ha preferito Termoli. E infatti ora, nella contesa per accaparrarsi lo stabilimento di Intel, la sfida con Catania – Catania! – da queste parti è vissuta già di per sé come un oltraggio. “E’ un po’ come se in fondo si avesse voglia di ribadire – prosegue Giovine – che noi il futuro certo che lo vogliamo, ma è lui che deve venire qui a farsi dare la benedizione dal potere locale”. L’innovazione che dovrebbe inchinarsi alla storia: lo sviluppo costretto ad ossequiare i vecchi riti perduti della corte della Real Casa (no, non i Savoia), e che ora rivivono in maniera un po’ decadente nelle tante piccoli regge (fondazioni, associazioni, comitati) governate dai vassalli rimasti in città.
E dunque, dopo aver rischiato la carta del cambiamento come sola alternativa alla stasi, ora che quell’esperimento è stato concordemente bocciato, che fare? Tornare all’usato sicuro del centrosinistra, o completare il guado e consegnare la città alla destra per la prima volta dopo settant’anni? Torino – o almeno: quella parte di Torino che sa che il 3 e il 4 ottobre si vota – sembra un po’ rimuginare intorno a questo dilemma.
E d’altronde, in mezzo a questa grande transizione incompiuta che è Torino, sembra che anche le due coalizioni si siano arenate a metà strada. Damilano è partito presto – lui riempiva la città di cartelloni pubblicitari, il Pd si scannava sulle primarie – e ha accumulato un vantaggio notevole, che ha cercato come ha potuto di amministrarlo: finendo però per fare la parte del Michetti sabaudo, che rifugge i confronti. Lo hanno lanciato i leghisti locali, ritenendolo il cavallo vincente per espugnare la roccaforte piemontese del centrosinistra. Et pour cause, visto che è proprio da quella parte che Damilano, proprietario di una delle più note cantine di Barolo, ha ottenuto a più riprese la legittimazione di civil servant: è la giunta Chiamparino che lo ha promosso a presidente del Museo del Cinema, forse anche per sdebitarsi per il sostegno che da sempre lui e la famiglia garantivano al Pd locale. Trasversale, pragmatico, era il volto giusto per una destra che qui aveva la necessità di apparire un po’ meno destra. E per un po’ ha funzionato. Solo che poi, preso nel furore pirotecnico della campagna elettorale, lui ha finito per scantonare un po’, sparacchiando proposte un poco strampalate tipo la chiusura della stazione centrale di Porta Nuova “da trasformare in nuovo museo d’Orsay”, e poi tutta una teoria di idee a metà tra l’avveniristico e il ricicciato, e sopraelevate e monorotaie e colline da sbancare per farci tangenziali. Allora s’è buttato un po’ sulla propaganda spicciola: sicurezza, decoro. E però a ritrovarselo così – il candidato moderato, quello che non disdegna le cene al penultimo piano del grattacielo di Intesa col fior fiore dell’establishment piemontese – a ritrovarselo lì che partecipa alle ronde notturne per le vie di San Salvario note per lo spaccio, insieme ai dirigenti di Lega e FdI, a Torino hanno storto il naso. Anche perché, nel frattempo, il suo profilo civico s’è andato un po’ annebbiando: e quando, dovendo indicare i candidati presidenti delle otto circoscrizioni, lui che dovrebbe essere immune dalle logiche dei partiti, ha indicato tre leghisti, tre meloniani e due azzurri, è sembrato cedere ai ricatti incrociati di una destra che in Piemonte come altrove è alla resa dei conti. Le sbandate del Carroccio degli ultimi giorni, poi, non lo aiutano, costretto com’è a recitare per forza di cose la parte del “candidato di Giorgetti”, che dunque è finito per diventare, almeno nei pettegolezzi giornalistici, il “candidato inviso a Salvini”. “Sciocchezze”, tagliano corto nella Lega. Sta di fatto che quando l’ex ministro dell’Interno arriva a Torino per la chiusura della campagna, il problema si pone. Al comizio finale, col Capitano e i suoi fedelissimi sul palco, Damilano non c’è. E allora Salvini, per non alimentare i sospetti che vorrebbe confutare, è costretto a rivedere in extremis il programma e fare una scappata di pochi minuti a Porta Palazzo, dargli una pacca sulla spalla, due foto di rito: ma come atterrando da un altro pianeta. “Quanto faremo a queste elezioni? Dipende”. Tentenna, alza lo sguardo. “Riccardo, quanto abbiamo fatto alle scorse comunali?”, domanda. E Molinari, un po’ impacciato, apre il palmo di una mano sola. “Solo il cinque?”. Il capogruppo alla Camera, alessandrino, conferma e rilancia. “Però alle ultime regionali, nel 2019, qui in città il 26”. “Ah, ecco, il 26”, si rilassa Salvini.
Peraltro a complicare le strategie, oltre al proliferare di candidati sindaco – tredici! – c’è stata anche la scelta del Pd, che ha rinunciato all’abbraccio coi grillini e ha puntato sul più ostile degli oppositori di Appendino. “Allearci col M5s avrebbe significato, per noi, dover difendere l’eredità di un’amministrazione pessima di fronte a un centrodestra che avrebbe accollato anche a noi i guai combinati dalla sindaca”, spiega Mimmo Carretta, segretario locale del Pd. Elementare, parrebbe. Solo che al Nazareno il pensiero era un altro. E così ogni volta che Francesco Boccia veniva qui col mandato di persuadere i dirigenti locali a stringere un patto col M5s, magari intorno alla candidatura del rettore del Politecnico Guido Saracco, era uno strazio per Carretta e soci dover dire che no, non era il caso, per poi sapere che prima ancora di vedersi con loro, l’ambasciatore di Enrico Letta s’incontrava alla chetichella con Appendino. La quale ovviamente il mancato accordo non l’ha preso bene, anche perché dover correre col proprio simbolo, raggranellare se tutto va bene quel 10 per cento, mette a nudo il fallimento di un lustro. Lei infatti s’è tirata indietro e s’è vista perfino promuovere dalla base grillina la candidata a lei meno gradita, quella Valentina Sganga che rappresenta l’anima più sinistrorsa del M5s, e dunque paradossalmente più incline a quell’accordo col Pd per il ballottaggio che Appendino e Conte insistono a negare.
Anche perché, appunto, significherebbe darlo a Lo Russo, quell’appoggio. Cioè a quello che, da capogruppo dem in Sala Rossa, ha condotto un’opposizione intransigente alla sindaca. Ex assessore all’Urbanistica di Torino, Lo Russo punta proprio sulla sua competenza. Che gli viene perfino rimproverata, talvolta, insieme al suo profilo austero, un po’ scostante, con quella saccenteria professorale che ha imparato a fare sua forse proprio per affermarsi, lui che al Politecnico insegna, sì, ma solo geologia. E allora lo hanno costretto a una terapia d’urto, i colleghi del Pd, convincendolo a girare i mercati cittadini con uno sgabello in mano, sedersi in mezzo alle gente e ascoltare, una per una, le lamentazioni del popolo. E’ per questo che un mercoledì pomeriggio ce lo si ritrova in una piazza di Borgo Vittoria a ballare con le vecchine del posto su musiche rigorosamente meridionali.
E del resto, nel dubbio sul da farsi, e in mancanza di grandi idee per rilanciare la città, tutti in periferia. Che qui a Torino, come un po’ dappertutto, “è ormai diventata un flatus vocis”, ci dice suor Giuliana Galli, e che qui a Torino, come un po’ dappertutto, è in effetti un concetto assai più complesso e controverso rispetto a ciò che la narrazione corrente vorrebbe ridurlo. “Forse, anzi, qui a Torino è più complesso e controverso che altrove”, precisa la “suora bancaria”, già direttrice del Cottolengo e grande amica di Cesare Romiti, che ora guida una onlus che ha base in via Bologna. E in effetti i problemi che qui nella periferia nord si vivono, problemi di sovrabbondanza di gente e di etnie, sono all’opposto di quelli che vive Mirafiori, che da quando è stata staccata la corrente al Lingotto s’è trasformata in un ricovero di pensionati. E mentre qui le madri si lamentano per le classi pollaio piene di maghrebini, dalle parti di piazza Bengasi, a sud, le scuole chiudono locali. “Ovviamente, tra tutte le periferie possibili, Barriera di Milano è quella che più si concilia con lo stereotipo diffuso”, prosegue suor Giuliana. Non solo a destra, ultimamente. “E questo forse non è per forza un male”, sorride lei. Che infatti è qui, in piazza Foroni (che è tutto uno sfavillare di vetrine di carni equine e taralli, perché qui si incistò la comunità pugliese negli anni Sessanta, a proposito di “padroni a casa nostra”), ad animare un corteo di famiglie che, prendendo spunto da recenti furti di pc nelle scuole del quartiere, ha trovato il modo per imboccare la via della “sicurezza” da sinistra: “Chi ruba è fesso”, urlano i manifestanti. “La sinistra ha forse troppo a lungo negato che l’integrazione è un problema da gestire; la destra indica le varie Barriera d’Italia come uno spettro: ecco cosa succede se non vi affidate all’uomo forte”, conclude lei, prima di essere trascinata dai bambini in una giga.
Il tutto, peraltro, a pochi metri dal palco già allestito per Salvini. Ché nell’ambita Barriera di Milano, così inflazionata nei discorsi di campagna elettorale, il corteo filo-Pd si ritrova a lambire quell’angolo tra corso Palermo e via Sesia dove il segretario della Lega arriva per il comizio conclusivo della campagna. Pestando i piedi, peraltro, ai suoi amici di FdI: che pure loro rivendicano il loro scorcio di Barriera, che però è lo stesso scelto dal Carroccio, e perfino le musiche sparate dalle rispettive casse a un certo punto s’accartocciano l’una sull’altra. “Io è da due settimane che ho prenotato questo spazio, ma lasciamo perdere”, dice la meloniana Vera Marino, candidata in circoscrizione 6, sbuffando da sotto il suo umile stand.
Cosa resta, di questa campagna elettorale? “La difficoltà a guardare avanti”, dice don Luca Peyron, prete unconventional che vanta una famiglia imparentata con la più alta nobiltà di mezza Europa, un avo che partecipò al progetto del canale di Suez e uno che contribuì alla decifrazione della Stele di Rosetta (e, da ultimo, un sindaco democristiano della Torino del boom economico che, vuole la leggenda, ideò la prima linea della metro e per questo s’inimicò Gianni Agnelli, che alla rotaia pubblica preferiva la gomma privata: ma di questo meglio non parlare, don Luca non risponde, non expedit). “Torino è una città impaurita dal suo passato troppo glorioso”, dice il prete, che ci accoglie nei locali della sua parrocchia della Madonna di Pompei, gli stessi dove ospita un’ottantina di ragazzi a cui consente l’utilizzo di attrezzatura più che all’avanguardia per fare machine learnigng. E’ il cappellano degli studenti del Politecnico, e insegna alla Statale e alla Cattolica di Milano. E’ esperto di intelligenza artificiale, e ne studia le implicazioni teologiche, oltre che giuridiche. Durante la pandemia, quando gli studenti di mezza Torino non sapevano dove andare a studiare informatica, essendo i laboratori universitari tutti chiusi, venivano qui. “Se penso a Torino – dice – penso a una città che oggi uccide molto velocemente i suoi figli che esplorano”. Anche per questo grosse idee sul futuro non ci sono in giro? “Siamo stati la capitale di tutto. Abbiamo inventato il design, il cinema. Ora ci spaventa pensare che non siamo in grado di inventare qualcosa”. Vale per il centro come per la periferia, allora. “Se il cuore non pompa sangue – spiega don Luca – gli arti incancreniscono. Se gli arti non si muovono, l’organismo non ha di che mangiare. Quando si capirà che senza un centro che cresce e che produce, che inventa e sperimenta, non c’è nessuna periferia che evolve, forse le città di appariranno come dei corpi vivi, e la si smetterà con questa sciocca contrapposizione”.