Ho compiuto col voto un atto di coscienza. Che inciviltà politica
Perché ho scelto Calenda, il candidato che mi piaceva di più e che ha fatto una campagna elettorale bella e significativa, tutte cose che nella mia ragion di politica non hanno mai avuto posto
Padre, chiedo perdono al mio Dio, che è il Dio della politica, per aver compiuto un atto di coscienza. Ho votato Calenda nel segreto dell’urna. Ho scelto il candidato che mi piaceva di più, non quello che aveva maggiori probabilità, sulla carta, di finire in ballottaggio e liquidare eventualmente l’Imperatore romano de’ noantri e la Regina della Monnezza. Ho scelto un outsider in odore di perdenza. Ho sacrificato un voto utile sull’altare del possibile. Ho deciso di incoraggiare uno che era partito presto, che ha fatto una campagna elettorale bella e significativa, tutte cose che nella mia ragion di politica non hanno mai avuto posto. Confesso il peccato a urne ancora aperte, e so che potrei pentirmene amaramente. Ma non ho resistito alla tentazione.
Nel suo comizione a piazza del Popolo, il salotto di Roma, ha parlato bene degli azionisti, le brave persone che si sono sparse nei partiti dopo aver registrato il fallimento di farne uno loro, uno puro, uno capace di cambiare l’Italia alle vongole, dopo la guerra. Era tutto un programma, in nome del valore più disprezzato da noi romani: la serietà. L’ho seguito dal Caffè Rosati, con un pugno di amici, tutti più o meno vergognosi di partecipare a una manifestazione, sia pure dal caffè, dal salotto nel salotto, dopo decenni di astensione, di castità, di estraneità. A me non sono mai piaciuti, quelli che epurano il nobile marcio della politica di massa, della politica dei partiti, mai. Sono come Prodi per l’alleanza sperimentale con i grillini, perché ci ha già risparmiato un governo Salvini nella pandemia, le cazzate dei ni vax, la riottosità antieuro che ci sarebbe costata duecento miliardi tondi tondi. Ma seguire il mio vecchio amico Bettini, da Bangkok a Roma, nella sua crociata contro i “rantoli” del modernista, del riformista, del libberale Calenda, questo non mi sono sentito di farlo. Atto di coscienza, che inciviltà politica. Mea culpa, mea maxima culpa.
Ora però, se Calenda finisse in ballottaggio e poi ce la facesse a vincere, avremmo un altro sindaco che non è in grado di governare Roma, impossibile nell’impossibile, ma almeno ci proverebbe. Magra consolazione di coscienze inquiete. Se non ce la facesse, alta probabilità, e non combinasse lo sfracello di spingere in giù il suo rivale di sinistra, il Gualtieri, il peccato di coscienza sarebbe solo veniale. In caso di disastro, alla mortalità del peccato si aggiungerebbe, unico conforto, il divertimento di una città che affonda lentamente nella sua eternità, e senza il Mose che la protegge. Padre, ho molto peccato in parole omissioni e opere. Ma sono invecchiato e la baldante pratica del cinismo, dell’indifferenza alle scelte che siano tra bene e male, della preferenza per il mediocre senso del reale, del discernimento gesuitico, non si adatta a quel penoso tenerume che subentra alle gioie dell’innocenza ciclicamente, ripetutamente perduta. Padre, quasi certamente ho fatto una cazzata. Non so nemmeno se le sarà mai possibile darmi l’assoluzione. Non so nemmeno se in caso di disastro sarò in condizioni di chiederla. Andrò all’inferno, circondato da rifiuti e cinghiali, e avrò tempo di pentirmi dell’unico atto di coscienza mai compiuto in vita mia.