sette anni per le riforme
Dalle nebbie del futuro si esce solo con Draghi al Quirinale
Il difficile arriverà con l’attuazione del Pnrr, la ricerca del consenso elettorale e un rinnovato antagonismo tra gli schieramenti
I due “grandi alleati” del governo Draghi, le due circostanze che sinora hanno assicurato il sostegno del Parlamento e il consenso dei cittadini – il Covid e gli aiuti europei – cominciano a perdere la loro forza. Anche per l’efficacia dell’azione governativa, in un prossimo futuro i cittadini saranno sempre meno preoccupati dalla diffusione dell’epidemia, e, per quanto riguarda gli aiuti europei, la soddisfazione per l’imponente entità del sostegno promesso e per l’accettazione del Pnrr italiano dovrà misurarsi con le difficoltà e le conseguenze di una sua effettiva attuazione.
Saranno conseguenze difficili da affrontare perché esse implicano una radicale trasformazione degli obiettivi e dei modi di far politica in Italia, una trasformazione che difficilmente potrà dar luogo nel giro di pochi anni a un miglioramento delle condizioni di vita percepibile dalla maggioranza dei cittadini: le forze del declino sono profondamente radicate nel nostro paese e i tempi per sradicarle non saranno brevi. Da ciò segue che i meriti del governo Draghi saranno visti ben presto come un (buon) lascito del passato, ma i prossimi governi dovranno essere sostenuti dal consenso che essi, e dunque i partiti che li formano, riusciranno a riscuotere da parte dei cittadini. Cittadini sui quali ricadranno le conseguenze del Pnrr, se questo verrà effettivamente attuato anche nelle sue misure più difficili e impopolari. Se non lo sarà, le conseguenze saranno assai peggiori: perderemmo i fondi che abbiamo conquistato, ma soprattutto la speranza di adattare il nostro paese alle esigenze della crescita economica e civile futura.
Se non si parte dal riconoscimento di questa situazione, non si capisce l’importanza della giuntura critica costituita dalle prossime elezioni del presidente della Repubblica e dalle successive elezioni politiche. Da tempo si discutono le più diverse ipotesi: qui parto senza esitazioni e giustificazioni dall’obiettivo finale, l’effettiva attuazione del Pnrr, dando per scontato quello del pieno rispetto della volontà dei cittadini, espressa dalla maggioranza dei voti che i partiti della coalizione vincitrice otterranno nelle prossime elezioni. E questo è il primo punto da chiarire.
La legge elettorale vigente, proporzionale con una significativa correzione maggioritaria, è una cattiva legge: essa ci porta dritto alla formazione delle due coalizioni – nemiche tra di loro, ma anche divise al loro interno – che hanno dato una cattiva prova di sé durante la Seconda Repubblica. Con un ulteriore peggioramento: dopo la fase populista attraversata dal nostro paese negli ultimi anni, entrambe le coalizioni saranno composte da partiti tradizionali/moderati e partiti con un presente o un recentissimo passato populista, e dunque con divisioni interne e una propensione allo scontro ideologico ancor più forti che ai tempi di Berlusconi e Prodi. Questo sembra oggi essere più vero per la coalizione di centrodestra che per quella di centrosinistra, in cui i Cinque stelle di Conte sembrano aver adottato una linea europeista e moderata, mentre nel centrodestra Fratelli d’Italia è fuori dall’agenda Mattarella/Draghi e la Lega accentua, secondo convenienze di popolarità facile, ora i suoi aspetti di lotta, ora quelli di governo.
E’ realistica l’ipotesi di una nuova e migliore legge elettorale? A mio giudizio lo è quanto quella di una riforma costituzionale che modifichi nel tempo breve di questo fine legislatura l’attuale sistema di governo, l’altro obiettivo senza raggiungere il quale non si riuscirà mai ad avvicinare l’assetto politico italiano a quello degli altri grandi paesi dell’Europa occidentale. Con l’attuale legge elettorale i partiti di centrodestra sentono di avere la vittoria in pugno e non credo che acconsentirebbero a un mutamento che intralci questa prospettiva. Dunque, se si ragiona in modo realistico, è necessario assumere come possibile/probabile che, nelle prossime elezioni politiche, prevalga il centrodestra e sarà in questo contesto che bisognerà trovare un ancoraggio per la prosecuzione dell’agenda Mattarella/Draghi.
La migliore prosecuzione dell’agenda sarebbe quella garantita dalla permanenza di Draghi alla presidenza del Consiglio sino alla fine della legislatura e dal ritorno di Mattarella alla presidenza della Repubblica, per poi consentire a Draghi di essere eletto al Colle quando si dimetterà. Realisticamente questo schema ha dalla sua il desiderio degli attuali parlamentari di evitare una chiusura anticipata della legislatura ma, anche assumendo (assunzione molto azzardata) che entrambi i protagonisti lo accettino, esso corre il rischio, eleggendo all’inizio del 2022 un presidente della Repubblica diverso da Mattarella, di non avere più Draghi né come presidente del Consiglio, né come presidente della Repubblica negli anni cruciali per l’attuazione del Pnrr, quelli in cui si deciderà il destino del nostro paese.
Non converrebbe allora esplorare meglio l’ipotesi di una ascesa al Colle di Mario Draghi e di (inevitabili?) elezioni anticipate? Draghi, dati i buoni rapporti che ha stabilito con parti importanti di entrambe le coalizioni, sarebbe il garante sia di un pieno rispetto delle regole democratiche, sia della prosecuzione del Pnrr. E questo anche se dovesse prevalere una coalizione di centrodestra e di conseguenza si formasse un governo guidato da un esponente politico di tale schieramento. Due sono però le difficoltà che incontrerebbe. La prima è che in entrambi gli schieramenti, ma soprattutto in quello di centrodestra, potrebbero essere minoritarie concezioni moderate di Destra e Sinistra, disponibili a compromessi e a legittimazione reciproca. La seconda è la ripetizione del gioco antagonista che populisti ed estremisti (Fratelli d’Italia ancor oggi, e la Lega e i Cinque stelle di allora) attuarono con successo contro il governo Monti e i partiti tradizionali.
Il gioco di Fratelli d’Italia potrebbe fallire per la totale assenza di un progetto economico-sociale auspicabile e realistico nelle circostanze interne e internazionali in cui ci troviamo, e forse gli italiani questa volta lo capirebbero. Resterebbe però sempre la prima e più grave difficoltà, perché centrodestra e centrosinistra potrebbero continuare a delegittimarsi reciprocamente e a rifiutare i compromessi necessari all’attuazione del Pnrr, rischiando di farlo fallire: il prossimo settennato presidenziale confermerebbe allora che l’Italia è irriformabile, con tutte le conseguenze interne e internazionali che conseguirebbero a questa constatazione. Escludendo che Draghi intenda presentarsi alle prossime elezioni come “politico” (o a capo di un proprio partito, come Monti, o schierandosi con la coalizione che più credibilmente si impegna oggi a sostenere il Pnrr), nelle nebbie dell’imprevedibilità del futuro intravvedo una sola via d’uscita.
Come presidente della Repubblica Draghi potrebbe giustificare la sfida che dovrebbe affrontare alla luce di un grande disegno, la necessaria cornice delle riforme che sta attuando come presidente del Consiglio: stimolare e assecondare la condivisione di quelle riforme costituzionali e istituzionali senza le quali il nostro paese non riuscirà mai a esprimere il suo potenziale. Sette anni, questa volta, forse potrebbero bastare.