ANSA/RICCARDO ANTIMIANI  

I risultati delle amministrative

Città in rivolta contro il bla bla bla di Salvini e Meloni

Claudio Cerasa

Schiaffoni ai populisti e al vecchio M5s. Carezze ai moderati e al Pd. Che show i comuni al voto

Una sberla alla Lega di Matteo Salvini, uno sgambetto ai cugini di Orbán di Giorgia Meloni, un ceffone al vecchio M5s, una carezza al Pd di Enrico Letta, un sorriso alla Forza Italia del Cav., un buffetto al centro di Carlo Calenda. Le amministrative, lo sappiamo, valgono quello che valgono e non sempre quello che succede nelle grandi città ha necessariamente un suo riflesso simmetrico a livello nazionale. I partiti che vincono nelle città, è chiaro, non sempre vincono nelle regioni e i partiti che vincono nelle regioni non sempre sono quelli che poi si affermano nel resto del paese. Ma quando alcuni trend si mostrano con una certa costanza è inevitabile provare a trasformare un voto locale in un’elezione nazionale. E in questo caso, i dodici milioni di italiani che tra domenica e lunedì sono andati a votare per scegliere i sindaci di comuni importanti come Roma, Napoli, Milano, Torino, Bologna, Trieste, e di regioni importanti come la Calabria, qualche indicazione interessante l’hanno offerta, ancora prima di guardare tutto il girato.

La prima indicazione gustosa riguarda il vero filo conduttore di queste elezioni: la rivolta grassa, sincera e fragorosa delle grandi città italiane contro il populismo. Dire che il 4 marzo del 2018 è stato finalmente cancellato sarebbe troppo ma la tentazione c’è. A Milano, vince al primo turno la sinistra moderata modello Beppe Sala e perde la destra immonda e immoderata su cui hanno scommesso Matteo Salvini e Giorgia Meloni. A Bologna, vince al primo turno la sinistra moderata modello Matteo Lepore, con un candidato che il Pd ha scelto alle primarie senza farsi dettare l’agenda dal M5s. A Napoli, vince al primo turno la coalizione rossogialla rappresentata dall’ex ministro del governo Conte ed ex rettore dell’Università di Napoli Gaetano Manfredi e perde in modo entusiasmante la destra dei masanielli che ha tentato di costruire un’alternativa alla Napoli degli ultimi otto anni provando a far succedere un magistrato (Catello Maresca) a un altro magistrato (Luigi De Magistris). A Torino, gli elettori bocciano in modo sonoro l’amministrazione grillina (la sua candidata arriva al 9 per cento) e premiano invece due candidati moderati (per il centrosinistra, Stefano Lo Russo, per il centrodestra Paolo Damilano, che riesce a portare dopo vent’anni il centrodestra a un ballottaggio nel capoluogo piemontese). Due candidati moderati, alternativi al modello Salvini-Meloni, si affermano anche a Trieste (in vantaggio c’è Roberto Di Piazza, imprenditore, che al ballottaggio andrà con Francesco Russo) e anche in Calabria (dove il nuovo governatore è il capogruppo uscente di Forza Italia alla Camera, Roberto Occhiuto). A Roma, la storia è simile e forse è ancora più significativa. Resta fuori dal ballottaggio la sindaca uscente, Virginia Raggi, la cui amministrazione è stata bocciata in modo sonoro come è avvenuto a Torino con la gestione Appendino, arrivano al ballottaggio Enrico Michetti (centrodestra) e Roberto Gualtieri (centrosinistra) con il candidato del centrosinistra che si presenta al secondo turno con un vantaggio virtuale notevole se ai suoi voti si andranno ad aggiungere quelli del M5s (Gualtieri è stato un ministro del governo Conte e il M5s di Conte non aspettava altro che una sconfitta di Raggi per poter sostenere Gualtieri al ballottaggio).

Perdono dunque i candidati di destra più vicini a Meloni e Salvini (non si vincono le elezioni schiacciandosi sull’estremismo), finisce la stagione della famigerata rivoluzione grillina (l’onestà politica, come diceva Benedetto Croce, altro non è che la capacità politica), vincono a destra i candidati più lontani da Meloni e Salvini (cosa sarebbe successo a Roma se la destra avesse candidato un Calenda al posto di un Michetti?) e vincono a sinistra i candidati più a loro agio con una nuova stagione politica che il segretario del Pd Enrico Letta (eletto nel collegio di Siena) sarà ora chiamato a interpretare. Una stagione in cui l’alleanza rossogialla (Manfredi e Gualtieri sono due ex ministri di Conte) avrà un futuro a condizione che il Pd riuscirà a costruire con il M5s un nuovo rapporto di forza finalizzato a togliere al grillismo la “golden share” della coalizione. Ci dicono questo le elezioni amministrative. Ci dicono qualcosa sulla resilienza non scontata del centrosinistra. Ci dicono qualcosa sulla debolezza delle leadership di Meloni e Salvini. Ci dicono qualcosa sul governo Draghi, che beneficerà della non avanzata dei populismi. Ci dicono qualcosa sul nostro Parlamento, che è riuscito a rappresentare un moto anti populista in atto nel paese prima ancora che esso venisse certificato dalle elezioni. E ci dicono qualcosa di importante anche sull’elettorato del centrodestra che attraverso le amministrative ha lanciato un appello disperato alla sua classe dirigente: morire populisti anche no, grazie. Chissà se qualcuno, a destra, avrà il coraggio di ascoltare i propri elettori. Un tempo si sarebbe detto: follow the money. Oggi forse è sufficiente dire: follow the green pass.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.