il caos a cinque stelle
Così Di Maio gela il trionfalismo dei contiani. Il M5s alla resa dei conti
I fedelissimi del premier rimpiangono di non aver fatto nascere "il partito di Giuseppe", ed esaltano il risultato a Napoli. Ma alla Farnesina mugugnano. Intanto da Milano parte la diaspora. Al sud Spadafora ammette la disfatta. E ora si teme il siluro di Beppe Grillo in vista dei ballottaggi
Inevitabile che ci sia chi ci vedrà della perfidia. Per Luigi Di Maio, però, c’è solo un sano realismo nella sua analisi della sconfitta. “I trionfalismi non aiutano”, s’è sfogato il ministro degli Esteri coi suoi parlamentari più fidati. Ce l’aveva non tanto con Giuseppe Conte, che ha fatto buon viso a cattivo gioco comme il faut. Ce l’aveva piuttosto, Di Maio, con le truppe più realiste del re: quelle, cioè, che da lunedì sera, a fronte di uno scrutinio impietoso, tentavano di esaltare il risultato del M5s. “Napoli è il modello, a Napoli abbiamo dimostrato che se stiamo nel centrosinistra siamo decisivi”. A suonare la fanfara è stata soprattutto Gilda Sportiello, deputata partenopea. Insieme a lei, ieri c’era Riccardo Ricciardi, vicecapogruppo alla Camera, ad affannarsi per sedare gli animi di chi, tra i suoi colleghi, chiedeva di prendere atto della disfatta.
Tentativo complicato, però. Perché nel frattempo Vincenzo Spadafora denunciava via Facebook la sua delusione per dei dati che perfino in Campania sono un po’ ovunque desolanti. “Dai risultati del M5s non emergono effetti speciali”. Ecollo, il primo velenoso riferimento a quel tanto chiacchierato “effetto Conte” che il responso delle urne ha rivelato come un’illusione da propaganda. “A Milano non esistiamo – prosegue l’ex ministro dello Sport – e in più perdiamo Roma e Torino”. E se il j’accuse riecheggia perfino in quel sud che fu culla del grillismo, figurarsi come la prendono in Lombardia, là dove il fu avvocato del popolo si convinse di poter sdoganare il nuovo corso del suo Movimento con una lettera scombiccherata inviata al Corriere della Sera a metà agosto. I big scansano la rogna di dover commentare come si fa con le confessioni più scomode: alcuni colleghi chiedono lumi a Stefano Buffagni, lui li invita a rivolgersi “agli eletti di Milano”. Ma né Manlio Di Stefano rilascia dichiarazioni, né lo fa Daniele Pesco. In compenso però Monica Forte, consigliera regionale al Pirellone, sbatte la porta in faccia a Conte: “Mi dispiace, presidente, io non la segue più, lascio il M5s”.
Subbugli di un partito allo sbando. In cui chi, come il deputato Sergio Battelli, invita a non negare l’evidenza (“Le elezioni non sono affatto andate bene. Scrolliamoci di dosso l’autoreferenzialità o saremo fagocitati. Le piazze piene non bastano se poi le urne sono vuote”, con chiara allusione ai toni trionfalistici utilizzati per raccontare il viaggio in Italia di Giuseppi nella bolla social a cinque stelle), finisce additato come traditore nelle chat.
Di qui il richiamo al senso di realtà da parte di Di Maio. Che nel frattempo s’insinua nelle sgrammaticature di Conte e interviene per coccolarsi via social quella Virginia Raggi che dal leader del M5s è stata lasciata da sola a dover commentare una sconfitta cocente, mentre l’ex premier correva ad abbracciare il candidato del Pd a Napoli. Del resto, nei pronostici della vigilia, Di Maio ci teneva a ricordare che lui, a gennaio del 2019, lasciò il M5s al 18 per cento, nonostante l’handicap di non potersi alleare con altre liste nelle amministrative. Fu per questo che, malgrado il notevole 38 per cento raccolto in Molise, nell’aprile del 2018 il grillino Andrea Greco si vide comunque sconfitto dalla corazzata composita del centrodestra. E invece due giorni fa a Isernia il M5s, pur in coalizione con Pd e soci, ha raccolto il 3,7.
Senza contare, poi, quella che alla Farnesina viene riscontrata come “un’insensatezza”. Il rivendicare, cioè, il buon risultato ottenuto insieme al Pd a Napoli, e poi però esultare – come fa Angelo Tofalo – per essere la “prima opposizione assoluta al sistema del Pd” in virtù di un 4 per cento raccolto a Salerno. E lo stesso vale a Rimini: dove il senatore Marco Croatti, fedelissimo della Taverna, gioisce per aver spaccato il fronte del centrosinistra (comunque vincente) e aver ottenuto, come M5s, il 2,4 per cento. Per non dire delle minacce a Torino e Roma, dove si continua a esibire un’ostilità senza prospettive all’idea di sostenere il Pd al ballottaggio. Se una scelta di campo s’impone, per Di Maio deve essere fatta con coerenza: e non certo per convinzione ideologica, ma per istinto di sopravvivenza.
E allora si capisce anche perché, di fronte a questo stillicidio di spifferi e di sbuffi, nell’entourage di Conte ci sia chi è tornato a dire che in effetti, a ripensarci bene, quell’idea di farsi un partito personale non era affatto male. E ancora non è arrivato il siluro di Beppe Grillo. Che in tanti, nei prossimi giorni, si attendono.