il caos a via bellerio
Giorgetti si eclissa a Milano mentre Salvini denuncia le manine di Draghi
Nel giorno della guerriglia sulla delega fiscale, il ministro dello Sviluppo se ne sta in Lombardia e spegne il telefono. "Matteo? Non lo capisco", sbuffa, temendo una riedizione (non voluta) del Papeete. E intanto i fedelissimi del segretario vedono i complotti: "Garofoli ce l'ha con noi"
Il paragone che a Via Bellerio nessuno si azzarda a evocare, Giancarlo Giorgetti prova a esorcizzarlo a modo suo. Con una battuta. Dicendo, in sintesi, che mentre ai tempi del Papeete “si cercava una scusa per rompere col governo, qui si cerca un modo per restarci”. E però neppure al ministro dello Sviluppo sfugge che questa guerriglia contro Mario Draghi è una corsa sul filo. E infatti quando i suoi gli chiedono un parere sull’atteggiamento di Matteo Salvini, lui risponde che “non lo so, non lo capisco più”. E non capendolo inizia un po’ a farsi da parte. Com’è successo martedì. Il giorno della zuffa sulla delega fiscale. Il giorno in cui tutti cercavano Giorgetti, per capire cosa stava succedendo, e nessuno lo trovava. Mise deserto. Telefono staccato.
In realtà, a Palazzo Chigi sapevano. Giorgetti aveva informato per tempo il premier e i suoi collaboratori che non ci sarebbe stato a Roma, nel giorno dell’approvazione della legge delega sul fisco in Cdm. “Impegni pregressi”, era stata la formula. Impegni legati alla campagna elettorale in terra lombarda, che avevano spinto il vicesegretario della Lega a partecipare alle riunioni programmate tra il Pirellone e dintorni, coi responsabili territoriali e il presidente Attilio Fontana in vista dei ballottaggi. Un defilarsi che in verità a Palazzo Chigi è stato visto anche come il tentativo di sottrarrsi alla scomodità di un ruolo che Giorgetti assume sempre più a fatica: quello di mediatore tra Draghi e Salvini, quello di chi deve rassicurare il primo sulle buone intenzioni del secondo (“a volte a noi leghisti scappa la frizione, ma la fiducia al governo non si discute”) e poi spiegare al secondo le ragioni del primo. Roba da perderci il sonno.
Specie quando poi, all’indomani del tonfo alle amministrative, gli strateghi di cui Salvini si circonda decidono che è il caso di trovare un diversivo: “Il nostro elettorato apprezza una battaglia contro l’aumento delle tasse”. E allora parte la pantomima. E allora, prendendo a occasione un ritardo nella trasmissione di alcuni documenti, s’imbastisce una trama da noir di Palazzo, si vagheggia il complotto. “Tutti gli altri partiti avevano la bozza della delega fiscale. A noi da Chigi ce l’hanno mandata a ridosso della cabina di regia”, giura chi, nel Carroccio, sostiene di aver sentito a telefono proprio Giorgetti, a ora di pranzo, e di essere rimasto sorpreso dal fatto che neppure lui avesse letto niente. “Lo fanno per spingerci fuori dal governo”, ringhiano i soldati del Capitano. Che hanno anche un nome e cognome da gettare nel tritacarne della polemica: Roberto Garofoli. Eccola, “la manina”. Sarebbe lui, il sottosegretario alla Presidenza che a tutti concede con scarso preavviso i documenti per evitare fughe di notizie e giochi delle veline ma che con più accanimento si rifiuterebbe di anticipare le carte ai leghisti, l’indiziato. Il tutto riferito in racconti esagitati, a metà tra la paranoia e l’affanno. Anche perché, se pure è vero che nessuno aveva il testo definitivo della delega prima della tarda mattinata di martedì, è anche vero che quel testo ricalcava “in maniera pressoché pedissequa il dossier elaborato dalle commissioni Finanze di Camera e Senato”, spiega Luigi Marattin. “Un dossier discusso per sei mesi a Montecitorio – prosegue il deputato renziano, che l’indagine parlamentare sul fisco l’ha coordinata – e votato all’unanimità”. Appellarsi alla mezz’ora di ritardo, insomma, appare un po’ patetico. C’era, è vero, la parte sul catasto: ma quell’aggiunta, voluta da Draghi in persona, era stata oggetto di lunghi confronti informali tra il premier e i ministri responsabili dei vari partiti. Compreso Giorgetti.
Al quale, nel momento in cui Salvini ordinava la rappresaglia – facendosi dettare a telefono da Massimo Garavaglia i punti aggiunti dal Mef alla bozza nota e poi precipitandosi in conferenza stampa accompagnato da Borghi e Bagnai a leggerli come si fa con le cose di cui non si conosce bene il significato – in tanti hanno provato a rivolgersi. Ma né i funzionari di Palazzo Chigi, né i capidelegazione degli altri partiti sulla soglia del Cdm, hanno avuto risposta. Telefono spento. Irreperibile.
Del resto avrebbe saputo rispondere a fatica, alla domanda che tutti volevano porgli. “Perché Salvini fa così? E che ne so”, s’è sfogato nelle scorse ore coi suoi fedelissimi. “Potrebbe rivendicare i buoni risultati avuti, e invece punta sempre a far notare quello che manca”. Lo ha fatto d’altronde anche con le discoteche. “La riapertura al 35 per cento è una presa in giro”, ha tuonato. Non accorgendosi che dunque a prenderlo in giro sarebbe stato anche il ministro competente in materia: e cioè Giorgetti, che aveva sudato non poco per ottenere almeno quella concessione dal Cts e che invece si vedeva impallinato dal suo stesso leader, perché “così rischiano di fallire 3.000 aziende e di rimanere a casa 200.000 lavoratori”.
Strategia? Oscure macchinazioni? No. Sembrerebbe più che altro confusione mentale del segretario, mista al nervosismo di chi prende una batosta elettorale e non sa bene come reagire. E forse è vero che non ci pensa sul serio a uscire dal governo, Salvini. Forse davvero il primo a paventare la riedizione del Papeete è lui. E però Giorgetti inizia a temere sul serio che a furia di recitare la parte di chi sta all’opposizione, all’opposizione ci si può finire quasi senza accorgersene.