L'eredità contesa
Le scazzottate di Arcore per definire il futuro di Forza Italia e del Quirinale
La guerra tra Tajani e Gelmini, le cene e le sceneggiate sotto gli occhi del Cav. I prossimi mesi degli azzurri passano dalla scelta del nuovo capogruppo: la faida tra Barelli e Giacomoni, ma non solo
Litigano davanti a lui. Lo chiamano in causa un po’ come giudice di pace, un po’ come sovrano assoluto che decide della sorte dei cortigiani con un sibilo, un’alzata di sopracciglio. “Presidente, tu che ne pensi?”. E lui, il Cav., dicono, a queste scene assiste ormai come a un supplizio necessario: perché sa che anche da lì, da questa baruffa un poco sgraziata per la definizione del nuovo capogruppo alla Camera, passa il destino delle sue irredimibili speranze di un’apoteosi quirinalizia. Venerdì scorso, per dire, lì a Villa San Martino, Antonio Tajani e Sestino Giacomoni si sono presi a male parole proprio di fronte all’impassibile Berlusconi. “Voglio vedere se davvero hai il coraggio di candidarti”, urlava l’ex presidente del Parlamento europeo in faccia a chi minacciava di scombinargli i piani, e che rispondeva con altrettanta stizza: “Io non posso accettare che la spunti uno che mi definisce ‘un suppellettile di Arcore’”.
Il riferimento è a Paolo Barelli. È lui, deputato romano, presidente della Federnuoto in cattivi rapporti con Giovanni Malagò e dunque con Gianni Letta, il designato da parte di Tajani. È lui che dovrebbe prendere il posto di quel Roberto Occhiuto nel frattempo diventato presidente della Calabria. “E il designato è lui – sibilano velenosi i suoi detrattori – perché con Antonio sono quasi consuoceri, visto che i rispettivi pargoli sono fidanzati”. Malignità? Meschinerie? Di certo martedì scorso, in una cena più di risentimento che di gala, anche Maria Stella Gelmini ha usato toni non proprio concilianti. “L’elezione di Barelli rischia di produrre malcontento e defezioni nella nostra pattuglia”. Problema di presentabilità mediatica del personaggio, c’è chi dice, ma anche di valori politici. “Alle comunali di Roma prendiamo il 3 per cento e facciamo capogruppo un dirigente romano?”. E però Tajani ne fa una questione personale. Perché lui, che da coordinatore nazionale è il più alto in grado tra i litiganti, dopo la scottatura della mancata promozione al governo ora rivendica la dignità del suo ruolo (“Se bocciate Barelli, ne trarrò le conseguenze”), riuscendo con questo a far cadere le ultime resistenze del Cav. La Gelmini parlava allora di coerenza politica, dicendo insomma che se la delegazione governativa è espressione di una FI moderata, avere come leader a Montecitorio un esponente dell’ala più filosovranista sarebbe un problema. “Ma se quelli più vicini alla tua area sono andati già con Toti”, le imputavano però gli interlocutori.
La decisione finale, pare, verrà presa mercoledì prossimo a mezzogiorno in un assemblea di gruppo. Ma quella data, a vederla con gli occhi dei deputati azzurri, appare lontanissima. E non a caso c’è già chi dice che, se davvero alla fine Barelli dovrà rinunciare, anche a Giacomoni verrà sacrificato. E a quel punto s’aprirebbe un nuovo giro di valzer e di candidature: quella di Valentino Valentini, attuale vice vicario, quella di Alessandro Cattaneo e quella di Stefania Prestigiacomo. Con Matteo Renzi e Carlo Calenda spettatori non disinteressati della vicenda: perché dall’eventuale paventata deflagrazione azzurra, potrebbe scaturire una nuova fuga di eletti da andare ad arruolare per l’altro futuribile progetto di un unico gruppo parlamentare centrista che vada da Iv a Coraggio Italia, passando per Azione. O magari non succederà nulla di tutto ciò. Ma ad Arcore sanno già che serviranno altre cene, altre sceneggiate.