il tredicesimo apostolo
Quante cose può fare un Draghi al Colle
I dodici presidenti (yes, come gli apostoli) che si sono susseguiti alla presidenza della Repubblica hanno esercitato poteri enormi: basta volerlo. Altre ragioni per sperare in un trasloco da Chigi al Quirinale
Certe menti magari acute ma intorpidite dall’abitudine alla chiacchiera vanno dicendo in giro che Mario Draghi deve restare a Palazzo Chigi, il luogo in cui si conta, si risana, si salva l’Italia con il fattivo lavoro esecutivo che si sa, e giammai trasferirsi al Quirinale, dove tra l’altro sono deputati e senatori a doverlo, se del caso, eleggere, perché quello è non si dica un pensionamento ma un emeritamento, sì, una messa a lato della politica che rimetterebbe in questione gli sforzi fatti per spendere bene i soldi europei, crescere, riformare eccetera.
Sottovalutazione e sopravvalutazione sono due modi di deformare e alla fine sbagliare la valutazione, a occhio e croce. L’osservatore intorpidito pensa che il Quirinale sia poco più che onorifico e Palazzo Chigi una chiave di volta irrecusabile di ogni governabilità. Pensa male o, come dicono gli anglomani, pensa in modo inappropriato. Infatti il Quirinale ha alcune caratteristiche decisive per l’effettualità politica; e sono precisamente le caratteristiche affini al capitale politico e personale accumulato da Draghi nella sua esistenza di uomo pubblico, di funzionario, di accademico, di banchiere di stato, di iperpolitico di scuola gesuitica capace di tenere in pugno con l’esercizio persuasivo di un mandato le più possenti nomenclature.
Il Quirinale non deve niente al popolo, è eletto dalle Camere con un metodo paramassonico di votazione segreta senza candidature manifeste, direttamente in un seggio elettorale in cui è vietato discutere; è il cuore della rappresentanza indiretta, è talmente al di sopra delle parti che, come è avvenuto in questa legislatura, può varare per necessità un governo populista, il primo in Europa, poi dare la stura a un gran ribaltone con il BisConte, infine affidare appunto a un uomo di garanzia la massima garanzia governante che è la coalizione di unità e di emergenza attualmente in carica.
Il Quirinale è il luogo istituzionale che impone rispetto, distanza, laconismo e formalismo esternatorio (salvo grandi eccezioni come Cossiga), autorevolezza e, sopra tutto, potere d’eccezione in tante di quelle materie che voi umani non potete nemmeno immaginare. Mentre si succedevano caterve di primi ministri, i presidenti sono stati solo dodici, come gli apostoli.
Abbiamo avuto con De Nicola un presidente galantuomo, monarchico a capo della neonata Repubblica (e ho detto tutto); poi un presidente Assolutamente Illustre e sparagnino estraneo alla dialettica di partito (Einaudi); tre fondatori di partito, a seguire, innestati a fondo nella tradizione politica nazionale, tra cui uno sospetto golpista (non è vero ma il “rumore di sciabole” spiega molte cose: Gronchi, Segni, Saragat); un notabile sfortunato (Leone); un eccelso demagogo resistenzial-popolare (Pertini); un eroe scespiriano del dolore, della pazzia e del chiasso riformatore (Cossiga); un maneggione della destra democristiana camuffatosi a sinistra (Scalfaro); un perfetto Bankitalia patriottico (Ciampi); un comunista di quelli “se tutti i comunisti fossero come lei” (Napolitano); un altro democristiano con il talento dell’efficace grigiore e della capacità pragmatica (Mattarella). Il catalogo è questo, ed è coloratissimo, invitante, per certi aspetti romanzesco.
Il Quirinale non è solo il presidente ma il suo staff, una delle formazioni burocratico-amministrative più vaste e cariche di politicità e di potere, al centro del quale si sono collocati famosi segretari generali che hanno fatto epoca. E’ dotato di immensi poteri, scoperti e no, in ogni campo. Contiguo in ogni senso alla Corte costituzionale, il centro di potere presidenziale domina sulla magistratura, sulle Forze armate, sulle Camere i cui presidenti, apparati e servizi sono un raccordo naturale con il ceto dirigente eletto; ha un potere dei poteri, la nomina del presidente del Consiglio e su sua proposta dei ministri, e un potere dei poteri dei poteri, la facoltà di sciogliere il Parlamento e convocare nuove elezioni. Può non promulgare decreti e leggi e indirizzare messaggi motivati alle Camere. Di queste facoltà i presidenti hanno fatto sempre uso, talvolta incidendo in modo evidente, pubblico, verificabile, talvolta in funzione di garanzia meno esposta, con il guanto di velluto della persuasione e della pressione politica. Chi abita lì condivide, sempre con un acconcio staff di diplomatici di curia, la politica estera ed europea del paese. Il capo dello stato italiano non è onorifico, come in Germania, e naturalmente non è semipresidenziale come in Francia, dove è insieme titolare dell’unità della Patria e vera effettiva guida dei governi, salvo il caso delle coabitazioni fra maggioranze diverse. La durata, poi, è decisiva. Sette anni sono molto, moltissimo, specie se confrontati ai segmenti di governabilità possibili da Palazzo Chigi, nettamente inferiori, contrastati, sempre in debito con il Parlamento e i partiti e le loro febbri. Insomma, non si può sottovalutare la funzione di governo e di guida del Quirinale, e pensare che sia in qualche modo laterale rispetto ai compiti strategici della politica nazionale, e non si può sopravvalutare il luogo di comando dell’esecutivo, che ovviamente è centrale e propulsore ma in un ambito di sistema in cui il Quirinale è il vertice indiscusso.
Ecco alcune banali ragioni per cui è segno di torpore riferirsi come a una marginalizzazione alla elezione di una personalità che sembra fatta apposta, per età, esperienza, competenza, circostanze temporali, e caratteristiche di storia personale e di carisma, per esercitare quella carica in una situazione di riforma e trasformazione da mettere al riparo negli anni da rischi di vaghezza e di instabilità. Chi pensa che Draghi al Quirinale sarebbe un Quota 100 mentre solo dall’esecutivo si possono gestire e tutelare i poteri necessari alla ripresa del paese pensa una cosa bislacca.