Brescia resiste alla cancel culture cinese
Pechino prova a cancellare la mostra dell'artista dissidente Badiucao, ma il comune lombardo risponde: "No"
La Cina chiede a un comune italiano di chiudere una mostra. Il comune italiano risponde: no. Ieri Brescia è diventata il simbolo della resistenza alla censura che la Repubblica popolare cinese vorrebbe esportare pure fuori dai suoi confini nazionali. E la Cina può permettersi di chiedere certe cose perché nella maggior parte dei casi questo modus operandi funziona: Pechino ordina di modificare oppure cancellare eventi a cui prendono parte persone a lei sgradite, oppure che trattano temi sensibili, ed ecco che gli organizzatori subito s’adeguano al sinicamente corretto, magari dopo minacce di tagli ai fondi – argomentazioni di certo più efficaci di quelle ideologiche. Ma questa volta non ha funzionato.
Nell’ambito di un ciclo di mostre dedicate all’Arte contemporanea e i diritti umani, nel comune lombardo è stato invitato Badiucao, il più importante artista cinese della dissidenza. La repressione a Hong Kong, quella della minoranza uigura nello Xinjiang, l’autoritarismo di Xi Jinping: Badiucao è noto a livello internazionale per saper illustrare tutte le contraddizioni del Partito comunista cinese con la sola forza delle immagini. La mostra “La Cina (non) è vicina”, con le sue opere, è prevista al Museo Santa Giulia dal 13 novembre al 13 febbraio 2022, e l’artista è arrivato in Italia una settimana fa, quando c’è stata la presentazione a cui ha partecipato anche il sindaco Emilio Del Bono del Pd.
Ma contestualmente, al comune di Brescia, è arrivata una letterina da parte dell’ambasciata della Repubblica popolare cinese in Italia. “Le opere nella mostra sono piene di bugie anti-cinesi, distorcono i fatti, diffondono false informazioni, fuorviano la comprensione del popolo italiano e feriscono gravemente i sentimenti del popolo cinese mettendo in pericolo le relazioni amichevoli tra Cina e Italia”, si legge nella missiva. “L’ambasciata esprime forte insoddisfazione per l’organizzazione della mostra menzionata e chiede al comune di agire rapidamente per cancellare le attività sopraccitate”.
Cancellare, dice la Cina, perché Brescia si concentri “sulla situazione complessiva e fornisca ‘energia positiva’ per la promozione delle relazioni Cina-Italia”, e perché “al popolo italiano” non vengano strane idee, come quelle di riflettere sui diritti umani. Ieri il sindaco Del Bono e la Fondazione Brescia musei, presieduta da Francesca Bazoli, hanno risposto con una lettera nella quale si sottolinea che la mostra non vuole in alcun modo “mettere in cattiva luce la Cina o il popolo cinese”, e che è dedicata “all’arte contemporanea nella sua correlazione con la libertà di espressione”. La mostra si inserisce all’interno del Festival della Pace, dice al Foglio il sindaco Del Bono, “che quest’anno è alla quarta edizione. E’ un festival che ha sempre aperto riflettori e spazi sul tema del dissenso in paesi in cambiamento e in trasformazione. L’anno scorso, per esempio, abbiamo avuto Zehra Doğgan, artista che aveva fatto anni di carcere in Turchia e ha fatto la prima esposizione proprio a Brescia”. Una città che “ha una storia, sin dagli anni Settanta ha sempre ospitato artisti del dissenso, polacchi, russi, ungheresi, e che ovviamente oggi apre anche finestre su altre parti del mondo”.
Eppure la lettera dell’ambasciata cinese ha toni molto duri, vi è mai capitato prima di ricevere questo genere di intimidazioni? “No, non c’è mai stata una presa di posizione o una comunicazione che ci segnalasse un disagio simile”, dice il sindaco. Che però ci tiene a precisare che “l’amicizia dei due popoli, quello italiano e quello cinese, non è in discussione. Siamo una città di immigrazione, e siamo una città democratica, abituata al pluralismo delle voci. In quanto tale dobbiamo poter esprimere il nostro giudizio sui sistemi politici, sui regimi. Ma credo sia importante far capire che si può rimanere amici anche criticando alcune cose”. A Pechino non sono così d’accordo: “Anche nella nota dell’ambasciata si percepisce la volontà della Cina di costruire dei rapporti di amicizia, e da una parte è apprezzabile, ma la Cina sta anche sfidando le democrazie occidentali, e forse questo sarà il vero tema del Ventunesimo secolo. Un paese che non si è dimostrato bellicoso, ma molto più pervasivo e presente dal punto di vista culturale ed economico. Di certo una considerazione che va fatta è che non abbiamo organizzato un convegno politico in cui si discute del sistema cinese, è piuttosto l’arte a infastidire”. Il tema è bipartisan, a Brescia. Il consigliere comunale Giangiacomo Calovini, di Fratelli d’Italia, ha chiesto al deputato Andrea Delmastro di promuovere un’interrogazione in commissione Esteri sulla faccenda. Che da locale si sta trasformando in un problema nazionale.
Trentacinque anni, nato a Shanghai, una laurea in Legge, più di dieci anni fa Badiucao si è rifugiato in Australia dove da anni dà voce, attraverso la sua arte, all’attivismo contro il Partito comunista cinese. Per lungo tempo è stato una specie di Banksy della democrazia e dei diritti: proteggeva la sua identità non come vezzo artistico, ma per evitare problemi con le autorità cinesi che volevano silenziarlo. Ha raccontato in diverse interviste su media internazionali che aveva paura delle intimidazioni cinesi, ma poi a un certo punto, quando una sua mostra a Hong Kong era stata cancellata, aveva deciso di venire allo scoperto. “Rivelare la mia identità è stato un passaggio fondamentale della mia vita”, aveva detto l’artista a questo giornale nel 2019, “sapevo che dopo l’annullamento della mostra la mia copertura era già compromessa, e sapevo che rivelarmi avrebbe potuto essere una mossa rischiosa. Ma ho deciso di liberarmi, e finalmente fare attivismo a volto scoperto, parlare con la gente, fare arte”. Sono firmate da lui le scarpe con cui ieri il campione dell’Nba Enes Kanter ha fatto infuriare la Cina. Sono belle, colorate, ma soprattutto sopra c’è scritto: “Free Tibet”.