dietro le quinte
Salvini e la congiura del giornalismo. Ecco chi è il nostro "infiltrato"
Dopo l’audio del Foglio. Il leader della Lega accusa i suoi deputati e vuole i filmati delle telecamere a circuito chiuso, mentre Borghi evoca microspie. Tranquilli, nessun complotto: s’era imbucato un cronista
Poiché non deve avere grande stima dei suoi parlamentari, che tratta da minorati, ecco che giovedì mattina li aveva accolti così nella sala del teatro in cui intendeva arringarli dopo la sconfitta elettorale: con una ramanzina preventiva. “Leggere ricostruzioni con particolari che solo chi è in alcune riunioni può sapere, mi fa capire che non c’è quella maturità che ci si aspetterebbe in un momento complicato come questo”. Ecco il clima nella Lega, tra il capo e gli altri. Non precisamente di fiducia.
Così, quando poi Matteo Salvini, poche ore dopo, ha letto e ascoltato sul sito del Foglio le esatte parole che aveva appena pronunciato di fronte all’assemblea dei parlamentari che si teneva a porte chiuse, non ha avuto più dubbi. Traditori e felloni. Chi ha passato l’audio del mio discorso ai giornalisti del Foglio?
E mentre il suo amato e sbrigliato Claudio Borghi esercitava l’arte del picchiatello su Twitter, immaginando complotti, microspie “sotto ai tavoli” e per soprammercato anche evanescenti diavolerie architettate da “qualcuno” (testuale), ecco che il segretario della Lega, in preda a una crisi da paranoia sovietica, pretendeva e faceva raccogliere le immagini delle telecamere a circuito chiuso del teatro per individuare il giuda, il senatore sleale o il deputato fedifrago. Pretendeva insomma la moviola, il var dell’assemblea: fatemi vedere tutto.
“Nella prossima riunione i telefonini si consegnano all’entrata!”, annunciavano allora i collaboratori del leader, mentre lui, Salvini, sempre più travolto da una sindrome d’assedio, spiegava che “non vado più a La7. Mai più”. E poi: “Da oggi decido io anche chi di noi può andare in televisione”. E ancora: “Chi parla con il Foglio è un cretino”.
Insomma nel più grande partito d’Italia si agitavano fantasmi, timori, roteavano microfoni, sospetti d’oscure e inafferrabili complicità. Quando invece non c’era nessun complotto, nessuna microspia, nessun tradimento, nessun audio “carpito” o “rubato” da chissà chi, nessuna trappola, ma soltanto e banalmente il giornalismo. Quello più semplice, addirittura. Il giornalismo più caro e vecchio del mondo, ovvero: andare, vedere e raccontare. Anche imbucandosi da cronisti del Foglio in un’assemblea di leghisti, se necessario. Con un bel po’ di faccia tosta. Come faceva Guido Quaranta, un giornalista passato alla storia, lui che in Trasatlantico veniva chiamato – non a caso – “supposta”.