il foglio del weekend
Onde radicali. Un documentario sulla radio di Pannella
La segreteria telefonica, le sedute in Aula e le voci. Storia dell'emittente radiofonica che è stata anche la coscienza civile del paese
Apparteniamo a quella generazione che non scoprì Radio Radicale con le dirette parlamentari, i monologhi di Pannella, i colpi di tosse di Bordin, le messe da Requiem o i processi dall’aula bunker di Poggioreale, ma ascoltando la marea di bestemmie, parolacce, insulti e inni al Duce mandati in loop sulla sua segreteria telefonica, frequenza 88.6. Un’esperienza di scarso senso civico ma assai elettrizzante. Giravano persino cassette fatte in casa. Come con le compilation o i “the best of”. Passavano di mano in mano, si ascoltavano anche in macchina, in qualche parcheggio, di notte, in rigoroso silenzio. Un “fenomeno virale”, avremmo detto oggi. Forse, il miglior podcast di sempre. All’inizio sembrava divertente, irriverente, liberatorio. Dopo un po’ faceva paura.
Ricordo una cassetta che s’intitolava “Craxi ladro”, o almeno così l’aveva intitolata qualcuno. La voce anonima era riuscita a registrare non si sa quante volte questo messaggio, alternandolo di tanto in tanto a “Bobo Craxi figlio di un ladro” o “Stefania Craxi figlia di un ladro”. Una litania recitata con una voce monocorde, robotica, assente, come quella di “Siri”. Era l’alba di Mani pulite e la segreteria telefonica di Radio Radicale diventava la colonna sonora delle monetine del Raphael. Coperti dall’anonimato, finalmente ascoltati da qualcuno, gli italiani prendevano la parola e si sfogavano. Un concerto di voci vernacolari, con dentro tutti i dialetti, tutti gli accenti d’Italia, ugualmente rabbiosi, feroci, indignati. Come un maestoso coro verdiano dell’ingiuria che seguiva, commentava e rimarcava la rovinosa disfatta della Prima Repubblica. Del resto, in quelle telefonate c’era già tutto: i comizi di Bossi, le piazze inferocite di Santoro, il “Vaffa Day” di Grillo, il successo de “La casta”, gli insulti a Liliana Segre, i saluti col braccio teso, l’apologia di terrorismo che spunta fuori ancora oggi nei talk-show (“Ah le Br, loro sì che avevano degli ideali”), fino alla variopinta marea di haters e troll della nostra quotidianità social. Fu però, prima di tutto, un formidabile test per misurare la forza di attrazione dell’antipolitica. Anziché provare a chiudere Radio Radicale, il Movimento cinque stelle avrebbe dovuto farle un monumento e pagare casomai i diritti d’autore. Per chi all’epoca aveva meno di vent’anni e di politica non capiva granché, quell’esperienza così surreale fu come una scoperta dell’Italia profonda, dei suoi rancori, delle sue frustrazioni, degli intramontabili e folkloristici “rigurgiti”. Tutto “senza filtro”, come si dice oggi, e molto “dal basso”. Il fenomeno passò alla storia come “Radio parolaccia”. Ma il titolo è riduttivo. Non rende neanche un po’. Perché se Radio Radicale era la coscienza civile del paese, dalla sua segreteria telefonica si scivolava negli abissi dell’inconscio.
Non è certo esagerato dire che quel passaggio storico a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e il tramonto della Prima Repubblica passa anche dentro quei nastri (pubblicati da Mondadori anche in forma di libro nel 1986, quando ci fu la prima prova generale della segreteria telefonica, poi replicata nei primi anni Novanta). Ecco allora l’idea che sta dietro questo documentario che ha un titolo bellissimo, “Onde radicali” (lo si è visto ieri alla Festa del Cinema di Roma, arriverà a breve su Sky). Ideato dal produttore Mario Mazzarotto e affidato al regista Gianfranco Pannone, insieme ai due co-autori, Marco Dell’Omo e Simonetta Angeloni Dezi, “Onde radicali” racconta l’avventurosa storia di una radio che non è stata soltanto un organo di informazione o una radio di partito. Gli storici del futuro, alle prese con usi, mentalità e costumi degli italiani avranno un gran da fare con tutte le tracce vocali che ci lasciamo dietro (messaggi e chat vocali su Whatsapp, Telegram, Clubhouse, una valanga di podcast, una montagna di intercettazioni telefoniche che, si sa, sono il vero, Grande Romanzo Italiano). Ma gli archivi di Radio Radicale sono ancora in gran parte da scoprire: quattrocentotrentamila e settecento registrazioni, dodicimila sedute di Aula tra Camera e Senato, diecimila sedute di commissioni parlamentari, tremila congressi di partiti, associazioni, sindacati, settemila comizi e manifestazioni, oltre tredicimila convegni, ventiseimila dibattiti, ottantacinquemila interviste, ventunomila udienze e questo numero non quantificabile di ore di insulti, ingiurie, bestemmie della sua segreteria. E poi naturalmente le voci, come quelle immortalate da “Onde radicali”: Enzo Tortora che si difende in aula, Leonardo Sciascia che si rivolge a “questa mostruosa astrazione chiamata Br”, i reportage di Antonio Russo dalla Cecenia, poco prima di essere torturato e ucciso.
Non è facile raccontare cos’è stata Radio Radicale a chi è cresciuto nell’era di internet (e nel film ci sono tre ragazzi della rivista “Scomodo” che devono imbastire una ricerca su Radio Radicale). Ma le sue “anticipazioni del futuro” sono strabilianti. La storia inizia a Roma, Monteverde, dalle parti di Villa Pamphili, alla metà degli anni Settanta, quando non era molto complicato mettere su una radio. “Sono andato da Marco Pannella con tutte le attrezzature che avevo a casa”, racconta Pino Pietrolucci, co-fondatore di Radio Radicale. “Ho una radio pronta per trasmettere, vorrei fare qualcosa di diverso. E lui ha detto: Vuoi fare Radio Radicale? Falla”. Il colpo di genio, naturalmente, sono le dirette dal parlamento e dal senato. Nessuna radio al mondo faceva una cosa del genere. Neanche la Bbc. Nessuno sembrava averci pensato prima, ma le sedute della camera sono pubbliche, quindi non si poteva impedire la trasmissione. Radio Radicale diventa così la prima radio della “disintermediazione”, “dentro” e “fuori” il “palazzo”, ovvero, come dice Rutelli intervistato nel documentario: “Radio Radicale è sempre stata contemporanea”. Magnifica la voce di Andreotti in un estratto di repertorio: “La provvidenza divina è grande, si serve persino della Radio Radicale per consentire a chi non può stare qui dentro di seguire tutto il congresso della Democrazia Cristiana, anzi ricordo di stare attenti perché qui si sente tutto”. Radio Radicale non aveva nulla a che fare con la “controinformazione”, parola feticcio di quegli anni. Né con lo streaming tra Bersani e Crimi. Radio Radicale sfidava la Rai sul suo stesso terreno. Offriva servizi che la Rai non offriva e provava a raccontare meglio quello che gli altri raccontavano poco o male.
Il documentario ruota intorno a quattro fatti di cronaca: l’uccisione di Giorgiana Masi durante la manifestazione promossa dai Radicali nel 1977, il rapimento e la liberazione del giudice Giovanni D’Urso, l’arresto e la gogna giudiziaria subita da Enzo Tortora, l’uccisione del corrispondente della radio in Cecenia Antonio Russo. La diretta di venti ore il giorno degli scontri di piazza in cui morì Giorgiana Masi fu un passaggio decisivo. La messa a punto di nuovo modo di fare informazione “dal basso”, come diremmo oggi. Chi stava in piazza telefonava (col gettone) alle radio collegate tra loro (“Radio Città Futura”, “Radio Onda Rossa”) per dare in diretta indicazioni sugli scontri, le vie di fuga, i punti sicuri della città. “Una cronaca in diretta fatta non da un cronista ma da un popolo in piazza”, dice Toni Garrani nel film. Ma naturalmente Radio Radicale ha anticipato anche “Un giorno in pretura”, con le dirette dei processi, grazie a un’intuizione di Massimo Bordin. Non era facile immaginare un ascoltatore disposto a sorbirsi la macchina processuale italiana, chiusa nella sua dimensione kafkiana, priva com’è di ritmo, drammaturgia, senso dello spettacolo, rispetto a quella americana. Eppure era proprio lì, in quelle aule, tra le rarefatte fumisterie dei pubblici ministeri, ascoltando con attenzione l’impasto di quella lingua amministrativa fatta di gergo aulico su fondo dialettale che si capiva qualcosa di questo paese. Colpisce, come ogni volta che la si ascolta, la voce di Enzo Tortora definito in quell’aula “un cinico mercante di morte”. Colpisce il tono calmo, pacato, addolorato con cui dice: “esiste in Italia un ufficio complicazioni dei problemi semplici”. Della registrazione del processo se ne occupò Antonio Cerrone, utilizzando come supporto tecnico il telefono di una signora che abitava all’ultimo piano di una palazzina di fronte a Poggioreale. E arriviamo così al fatidico 1986. L’anno in cui Radio Radicale diventa “radio parolaccia”. I soldi non ci sono più (non che ce ne siano mai stati molti). Ma anziché chiudere la baracca viene fuori quest’idea delle segreterie telefoniche. Orfani delle dirette, dei processi, dei reportage, gli affezionati ascoltatori della radio avrebbero avuto un minuto a disposizione per registrare un messaggio. Un saluto, un augurio per il pronto ripristino delle trasmissioni, una domanda per Pannella. I primi due o tre giorni è così. Poi, quando si sparge voce che si poteva chiamare, registrare un messaggio e essere mandati in onda, viene fuori di tutto.
Nel documentario vediamo le strade deserte di Roma, riprese da un drone, di notte, e in sottofondo, tra un “beep” e l’altro della segreteria, ecco gli insulti ai “terroni”, i canti balilla, le invettive contro i politici, qualche “forza Roma”. All’inizio, i redattori della radio tagliavano via parolacce e bestemmie. Ma Pannella si arrabbiava. Era lì tutto il valore di testimonianza anche antropologica del paese. Il 14 agosto 1986, i magistrati firmarono un decreto di sequestro delle segreterie per reati vari di vilipendio e apologia di fascismo. Intervenne il Parlamento. Giancarlo Loquenzi, giornalista prestato da molti anni alla radio, conduttore di Zapping su RadioUno, e tra i fondatori di Radio24, entrò a Radio Radicale a diciotto anni. Ci rimase per oltre dieci anni. Lo si intravede nella locandina di “Onde radicali” insieme a un giovanissimo Roberto Giachetti. Fu, ovviamente, una palestra formidabile. “Lavoravo alle dirette dalla Camera e dal Senato, una cosa estenuante, dovevo inserirmi solo per annunciare il nome di chi aveva preso la parola per l’intervento. A volte poteva capitare che mi inserivo sugli applausi e, quando veniva a saperlo, Pannella si arrabbiava. L’applauso poteva essere più importante del discorso, perché lui voleva che la radio restituisse il clima, l’impasto sonore, i brusii, gli applausi, i fischi, tutte le voci delle camere. Quella era la cosa più importante”. Quasi un lavoro etnografico, più che d’informazione. Del resto non si capisce granché di Radio Radicale senza passare dalla sconfinata passione di Pannella per la propria voce, la parola, l’oralità. “Il Partito Radicale non aveva un giornale”, continua Loquenzi, “aveva una radio perché Pannella preferiva parlare che scrivere, prendeva il microfono e andava avanti anche a braccio, anzi, non di rado, i suoi interventi migliori li ha fatti a braccio. Pannella non amava scrivere, non ci ha lasciato libri ma ore e ore di parlato, di contatto diretto con gli ascoltatori. Era tutto sonorità. Un impasto di colpi di tosse, ricordi, digressioni, mescolava tutto”.
Ancora di più, allora, in questo ritorno all’oralità fatto di messaggi vocali, audioguide, audiolibri, assistenti vocali, podcast, in questa immortalità della radio che sembra resistere meglio di tutti gli altri media alle trasformazioni anche violente della contemporaneità, le intuizioni di Pannella sembrano decisive. “La vocalità è ovunque, e questo ritorno all’oralità Pannella lo aveva intuito quarant’anni fa. L’idea che la voce abbia qualcosa di primordiale, la sua capacità di mettere in contatto le persone in modo immediato, queste cose sono alla base di Radio Radicale. C’è però una grande differenza: oggi in radio quasi nessuno telefona. La voce è al centro della maggior parte dei dispositivi che utilizziamo, ma siamo restii a telefonare”. E’ così. Alzi la mano chi non vive ormai come un trauma una brusca irruzione nella propria privacy, la telefonata improvvisa che non è preceduta dal messaggio, “possiamo sentirci un attimo?”.
“In questo senso, il mondo della radio di oggi, soprattutto di quelle radio che si fondavano in gran parte sulle telefonate degli ascoltatori, è molto diverso”. L’unico che oggi tiene in piedi questo culto per la telefonata in trasmissione è Giuseppe Cruciani con “La Zanzara”, un programma che è un po’ la versione “wrestling” della segreteria di Radio Radicale. Ma lì si replica il meccanismo dei talk-show. Una compagnia di giro con pochi ascoltatori fidati che chiamano sempre. Un po’ come con le radio sportive romane, quelle che tutti quanti almeno una volta abbiamo ascoltato in un taxi. Quelle da cui veniva fuori quel gran personaggio di questa destra sconfitta che è Enrico Michetti. Uno dei tanti “segni” della vitalità, della forza, della permanente contemporaneità della radio. Radicale o meno.