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Una Cgil di lotta e di abbracci. La trasformazione storica del sindacato

Stefano Cingolani

I rapporti con il governo e Confindustria, le sfide del futuro. Ritratto del sindacato che i neofascisti volevano assaltare 

Cgil, storia della sindacato assaltato dai neofascisti

 

Abbracci proprio no, allora non si usavano. Tra uomini poi… e che uomini. Un povero bracciante pugliese e un ricco industriale genovese, un social-comunista perseguitato dal fascismo, un cattolico liberale che aveva attraversato il ventennio nero tra oli e navi per poi emergere al fianco di Alcide De Gasperi. Tra loro, insomma, potevano esserci solo abboccamenti clandestini. Così, Giuseppe Di Vittorio e Angelo Costa, il capo della Cgil, primo sindacato della classe operaia, e il presidente della Confindustria, principale sindacato dei padroni, si incontrarono in un vagone ferroviario alla stazione di Bologna lontano da occhi e orecchi indiscreti. Era il 1948 l’anno in cui, rotta l’alleanza antifascista, passata all’opposizione la sinistra, frantumata l’unità sindacale, tutto poteva precipitare. Anche se Palmiro Togliatti ferito da tre pallottole uscite dalla pistola di un “Uomo qualunque” (l’attentatore Antonio Pallante si definiva simpatizzante del movimento guidato da Guglielmo Giannini) aveva fermato le sue truppe, la vittoria straripante della Dc suscitava un sentimento di frustrazione pronto a trasformarsi in rabbia. “La Resistenza tradita” era già lo slogan che avrebbe scavato come una talpa per altri vent’anni, fino a Giangiacomo Feltrinelli, sino alle Brigate Rosse. 

L’approccio segreto era rimasto nelle nebbie del mito. Tanto che nel 2001 Indro Montanelli, che di mito se ne intendeva, scrisse sul Corriere della Sera: “Fiorirono leggende sui notturni incontri ferroviari tra Di Vittorio e Costa per trovare qualche soluzione ai più pressanti conflitti fra capitale e lavoro senza danno né per l’uno né per l’altro. C’era molto romanzo in questo rapporto fra due uomini che tra loro si valevano quanto a impegno, competenza e onestà. Ma c’era anche un buon pizzico di verità”. Nel 1990, in una mostra intitolata La Civiltà delle macchine e organizzata a Torino su iniziativa della Fiat, venne esposta una ricostruzione accurata. Scriveva ancora Montanelli: “Comunque, mai nessuno accusò Costa di tentativi di corruzione su quel suo rude e rozzo, ma inossidabile avversario, né costui di tentativi d’intimidazione su quel suo pacato e pazientissimo interlocutore. Non cessarono mai di combattersi, ma nemmeno di stimarsi e, quando era possibile, di aiutarsi a vicenda. Nella fase acuta della lotta sindacale nella disastrata Italia dell’immediato dopoguerra, Di Vittorio fu – grazie alla sua oratoria lutulenta, ma ispirata da una passione cristallina – il padrone delle piazze e dei grandi agglomerati operai. Ma usò l’immenso ascendente che vi esercitava non per accendere, ma per spegnere gl’incendi, o almeno per circoscriverli”.

Gli abbracci tra il sindacato e gli esponenti del potere economico e politico

Di abbracci, fisici o ideali, ce ne sono stati parecchi tra la Cgil e gli esponenti del potere politico ed economico, prima di arrivare alla mano di Mario Draghi attorno alla vita e poi sulla spalla di Maurizio Landini. L’occasione è ben diversa con una Cgil assaltata da un manipolo di neofascisti accolti da una piccola folla plaudente. L’ottobre 2021 non assomiglia all’estate del 1948 né all’autunno caldo del 1969, eppure siamo a un nuovo spartiacque, l’Italia è in bilico tra l’abisso della pandemia e la palude di una stagnazione senza fine, nel bel mezzo di un altro rimescolamento degli equilibri politici mentre declina il populismo e stenta a sorgere il sol dell’avvenire. Una terra di mezzo quanto mai pericolosa nella quale rispunta quel sindacato politico protagonista in due periodi cruciali come gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso.

Chi nel 1975 non c’era ancora avrà visto magari le foto e quei sorrisi: gioviale Luciano Lama, contenuto ma non meno soddisfatto Gianni Agnelli, quando poco dopo la mezzanotte del 25 gennaio la strana coppia firmò l’accordo sul punto unico di scala mobile che doveva proteggere i salari e spegnere gli scioperi permanenti, garantire i lavoratori dipendenti, ma anche la pace sociale. Era d’accordo l’intera trimurti, come venivano chiamate le tre confederazioni Cgil, Cisl e Uil, anzi era stata la Cisl a lanciare fin dall’inizio la proposta anche se Lama ne assunse in pieno la responsabilità. Qualche giorno prima dell’inizio delle trattative, Agnelli aveva chiesto di vedere Lama a Roma, ha ricordato Miriam Mafai. Si incontrarono la mattina presto, per un caffè. Agnelli chiese: “Senta, Lama, cosa facciamo? Le sembra possibile o no fare un accordo con punti differenziati?”. Il segretario della Cgil rispose di essere personalmente a favore della diversificazione del punto di contingenza, ma di non poter rompere l’unità del sindacato. Quindi la stessa cifra per tutti. E l’accordo si fece. “Senza la solita manfrina delle trattative lunghe fino all’alba”, ricorderà Agnelli che, apposta la sua sigla, telefonò ad Aldo Moro allora presidente del Consiglio il quale commentò: “Su queste cose, lei, avvocato, è il miglior giudice”. Il punto unico di contingenza moltiplicò l’inflazione fino a quando nel 1985 un referendum popolare sconfessò la linea sostenuta dai comunisti che Lama non riusciva più a difendere. Quella consultazione la volle, disperatamente volle, Enrico Berlinguer per una ragione politica: battere Bettino Craxi. Il segretario del Pci morì senza vedere il risultato catastrofico per il suo partito che cominciava allora un lungo e inesorabile declino, ben prima che cadesse il muro di Berlino.

In un’altra fase, quando ormai l’intero sistema politico era crollato, risparmiando però i sindacati, la Cgil abbracciò, insieme alla Cisl e alla Uil, Carlo Azeglio Ciampi e la sua politica dei redditi ammantata di consociativismo cattolico e di redistribuzione laburista, sancita dall’accordo del 23 luglio 1993. Esattamente un anno prima i sindacati avevano raggiunto con il presidente del consiglio Giuliano Amato un’intesa per bloccare i salari e liquidare definitivamente la scala mobile nel vano tentativo di fermare la speculazione sulla lira che sarebbe stata svalutata del 30 per cento nel mese di settembre. Bruno Trentin, segretario generale della Cgil, figura mai più replicata di intellettuale borghese e sindacalista, sull’onda del suo maestro Vittorio Foa, nonché comunista eretico, si era dimesso dopo aver accettato per senso di responsabilità il compromesso proposto dal governo. Convinto a fare marcia indietro, Trentin cominciò una complessa discussione su come ridurre il debito pubblico e abbattere un’inflazione del 20 per cento. Nell’aprile 1993 Tangentopoli travolse il governo Amato e dal sommo colle Oscar Luigi Scalfaro incaricò Ciampi, governatore della Banca d’Italia, di formare un “governo del presidente” che portò in dote la “concertazione”. “I risultati furono straordinari. Il debito e l’inflazione crollarono, l’economia tornò a crescere, la redistribuzione si fece più equa e vennero rispettati i parametri di Maastricht ed entrammo così nel sistema dell’euro”, ha ricordato Sergio Cofferati che guidò la Cgil in un duro scontro con il governo Berlusconi. Il Cinese, come veniva chiamato, portò al Circo Massimo una folla immensa (un milione, due, tre, la leggenda non s’addice all’aritmetica) contro l’abolizione dell’articolo 18 della legge 300 (già statuto dei lavoratori) che dal 1970 regolava i licenziamenti. Il Cavaliere mollò la presa. Toccherà a Matteo Renzi con il suo Jobs Act l’onere di una riforma contro la quale si schiererà Susanna Camusso alla guida di una Cgil di lotta e non di governo. C’era stato nel frattempo l’abbraccio tra Guglielmo Epifani (Cgil) e Luca di Montezemolo (Confindustria), ma era rimasto effimero e leggero come i tempi e i protagonisti. 

Le prossime sfide della Cgil

E adesso che succede? Si ripropone la dicotomia tra il sindacato generalista modello Cgil e quello contrattualista modello Cisl? Celebrando i 120 anni della Fiom, il 17 giugno scorso Landini, che ha guidato la federazione dei metalmeccanici, ha riproposto l’unità con le altre due confederazioni “per poter avere una forza che incida sulle scelte dei governi”: sarebbe questo “il futuro del sindacato”. Eppure tutto negli ultimi vent’anni si è mosso in senso opposto. L’Ilo, l’organizzazione del lavoro che fa capo all’Onu, ha pubblicato una ricerca che dovrebbe far venire i brividi anche a Landini. Gli iscritti calano in tutto il mondo, è una tendenza di lungo periodo diventata sempre più netta. Molte sono le ragioni oggettive: il crescente peso delle attività di servizio rispetto a quelle industriali, la disoccupazione femminile e giovanile, l’invecchiamento del sindacato, l’innovazione tecnologica, il lavoro precario, l’inaridirsi del capitale umano con un peso spesso preponderante dei pensionati, la maggiore o minore “tutela” da parte delle istituzioni. Mentre il “sindacato dei diritti”, così lo chiamò proprio Trentin, che parte dalla persona, ha favorito leggi, regole, norme stringenti, tanto che il magistrato si è sostituito spesso al sindacalista. 

“Declinare crescendo” aveva scritto Bruno Manghi, vero ideologo della Cisl di Pierre Carniti, quando l’influenza politico-istituzionale delle confederazioni faceva da pendant alla riduzione delle adesioni nelle fabbriche e negli uffici. Adesso sembra che il declino sia completo. Nell’Europa occidentale resistono i paesi scandinavi: il rapporto tra iscritti e occupati in Svezia è ancora al 65 per cento, in Danimarca al 67, in Norvegia al 50 per cento, nel resto del continente il Belgio s’attesta al 48 per cento, ma l’Olanda è al 15, la stessa Germania, dove pure la confederazione sindacale è una potenza, arriva al 16 per cento e la Spagna delle Comisiones obreras resta su un modesto 12 per cento. In Gran Bretagna, nonostante Margaret Thatcher, le Trade Unions organizzano ancora il 23 per cento dei lavoratori dipendenti. L’Italia è scesa al 32 per cento. Vent’anni fa superava il 34, c’è stata un’impennata di iscritti tra il 2010 e il 2012 – il biennio in cui l’euro stava per saltare – fino a sfiorare il 37 per cento, poi di nuovo giù. La pandemia ha visto un ritorno degli aderenti saliti a 11,3 milioni (5 milioni alla Cgil, 4 milioni alla Cisl e 2,3 milioni alla Uil), secondo dati non definitivi, oltre la metà lavoratori attivi, il resto pensionati. Tra i segnali controtendenza c’è l’ingresso dei sindacati in Amazon, o il contratto per i riders, ma sarebbe ardito sostenere che il ciclo sia cambiato. 

L’Ilo non si nasconde i problemi e indica anche quattro possibili scenari: il primo, il più probabile, è la “marginalizzazione” se il declino non verrà arrestato; c’è poi la “dualizzazione” tra grandi e piccole imprese, tra difesa del lavoro tradizionale e i nuovi lavori spesso in competizione, tra settori pubblici e privati, industriali e di servizio; è anche possibile che il sindacato venga sostituito con altri strumenti di protezione, mentre si moltiplicano le piazze, comprese quelle digitali, relegando in un angolo la Piazza, quella sindacale (la manifestazione di sabato 16 ottobre in piazza San Giovanni a Roma forse è una rondine, ma ancora non fa primavera); infine c’è la possibilità, per quanto remota, di una vera e propria “rivitalizzazione”. Su quali basi? 

Cominciamo con il ricordare che il lavoro non scomparirà, con buona pace di Beppe Grillo e dei suoi seguaci, ma anche di Jeremy Rifkin, guru un tanto a gettone. Non scompare nemmeno il lavoro dipendente, nonostante la roboante offensiva leghista sulle partite Iva. Quel che ci riserva il presente (del futur non v’è certezza) è un mondo dei lavori. Era un cavallo di battaglia di Aris Accornero, scomparso nel 2018, operaio-intellettuale, militante della Cgil, docente di Sociologia industriale all’Università La Sapienza, ma passare dal lavoro ai lavori per il sindacato tradizionale si è rivelato troppo difficile. Questo lavoro al plurale non è necessariamente negativo, al contrario aumentano gli spazi di autodeterminazione se non proprio di libertà: lo smart working, per esempio, riduce quella frantumazione del tempo di vita che ha caratterizzato per due secoli la società industriale. Ciò significa che non ha più senso il “sindacato di classe” (modello Cgil alla Di Vittorio) e perde anche spazio il “sindacato di categoria” (modello Cisl vecchia maniera). Quanto alla dimensione politica che aveva raggiunto il massimo in Italia negli anni Novanta, si è via via logorata fino a venir sfidata apertamente dalla destra (e questo è ovvio) e dalla sinistra riformista, il che era meno scontato. Certo, già Tony Blair aveva ridimensionato fortemente il potere delle Trade Unions sul partito laburista, ma Matteo Renzi, prima come segretario del Pd poi come capo del governo, ha rimesso in discussione ogni forma di consociativismo, compresa il neocorporativismo di ciampiana memoria. La Cgil non glielo ha mai perdonato e ha contribuito in modo rilevante, manovrando il fianco sinistro, alla sconfitta del referendum sulle riforme istituzionali. Renzi si è ritirato, il nodo deve essere ancora sciolto. Come e da chi? 

Si riapre una discussione attorno al ruolo dei corpi intermedi, un aspetto sul quale insiste Giuseppe De Rita: il fondatore del Censis ha sempre diffidato da buon cattolico di ogni verticalizzazione del potere, di ogni leaderismo spinto, per non parlare di ogni invocazione dell’uomo forte. Il rapporto diretto tra il capo e le masse, per quasi un decennio, è stato presentato come la via d’uscita dalla palude politica, causa importante della lunga stagnazione italiana, però s’è logorato producendo instabilità. Tanto che l’Italia si è affidata a Mario Draghi, che non è un politico di professione anche se, con buona pace di Max Weber, ha mostrato un grande senso politico. Oggi la frattura non è solo tra vertice e base, tra élite e cittadini, tra eletti ed elettori, ma si espande all’interno dell’establishment e “in seno al popolo” (basti guardare ai portuali triestini). Per ricomporla occorre un progetto, ripartendo dal basso senza saltare alcun passaggio; niente scorciatoie, quindi tornano in campo le organizzazioni professionali, economiche, sociali. Sindacati e confindustria alla riscossa, dunque? De Rita è rimasto finora una voce che parla nel deserto, a meno che l’abbraccio tra Draghi e Landini non apra davvero una terza stagione né conflittuale né consociativa.

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