Se un giudice decide che si può criticare anche un magistrato
Vi raccontiamo una piccola vicenda giudiziaria che ha visto contrapposti il Foglio e Piercamillo Davigo. Perché la sentenza ci aiuta a ricordare la differenza che c’è tra una democrazia aperta e una repubblica giudiziaria
Quella che segue è una storia che riguarda questo giornale e che in particolare riguarda una piccola vicenda giudiziaria che ci ha visti contrapposti al dottor Piercamillo Davigo. Chi legge questo giornale sa che cerchiamo di parlare il meno possibile di quello che ci riguarda ma questa vicenda giudiziaria presenta un elemento di carattere pubblico che merita di essere raccontato e che ha a che fare con un profilo interessante che potremmo grossolanamente sintetizzare così: le prerogative di un magistrato mediatico. Ovverosia: il confine entro il quale si può muovere un magistrato che, nell’esercizio delle sue funzioni, sceglie legittimamente di esporsi per affiancare alla sua attività professionale una fitta attività di divulgazione mediatica del proprio pensiero.
La storia è questa e comincia il 18 settembre del 2019 quando il dr. Piercamillo Davigo, con querela da lui firmata personalmente e depositata, ha ritenuto offensivo e denigratorio nei suoi confronti un articolo comparso sul Foglio qualche settimana prima. Titolo del nostro articolo: “Quanto rumore fa il silenzio di Davigo”. Tema del nostro articolo: l’insolito silenzio dell’ex pm di Mani pulite Piercamillo Davigo sullo scandalo che in quei giorni aveva iniziato a travolgere il Csm, di cui Davigo era membro. Svolgimento: per quale ragione un magistrato che “da oltre due decenni ci ha abituati a continui interventi su giornali e tv dal taglio moraleggiante, finalizzati a denunciare il diffuso malaffare nella classe dirigente ogni qualvolta vi fosse uno scandalo di corruzione e a celebrare la superiorità etica della magistratura, stavolta ha deciso di trincerarsi nel silenzio più totale di fronte a quella che appare essere una delle più gravi crisi mai vissute dall’organo di autogoverno delle toghe”? La tesi di Davigo è che il nostro giornale avesse voluto tacere sul fatto che Davigo, all’epoca, faceva parte del Collegio giudicante istituito in seno al Csm proprio per vagliare gli addebiti mossi al dott. Palamara e che di conseguenza se non si fosse “trincerato nel silenzio più totale si sarebbe esposto al rischio di ricusazione da parte dell’incolpato, conformemente alle norme di procedura applicabili secondo la costante giurisprudenza del Csm”.
Quindi, dice Davigo, tacendo si era limitato ad attenersi a un preciso divieto posto. Il pubblico ministero in data 27 maggio 2020, aveva scelto di presentare richiesta di archiviazione osservando come l’editoriale non abbia preso di mira il dr. Davigo quale magistrato, di cui non viene discussa la qualità e la correttezza professionale, ma Davigo come personaggio pubblico, “che nei suoi frequenti interventi ha spesso stigmatizzato il malcostume del mondo politico anche con frasi come quella riportata nell’articolo mentre gli interventi critici cari al magistrato sarebbero mancati nel caso Palamara”. Si tratta, scrive il pm, di uno spunto polemico e provocatorio nei confronti del “paladino dell’anticorruzione” e membro del Csm che in questo caso tacerebbe per “difendere la propria categoria”. E questo silenzio, continua il pm, “è un dato di fatto” e aggiunge che l’autore dell’articolo “non si è interrogato sull’ipotesi che il dr. Davigo, membro all’epoca del Csm, non si sia esposto in giudizi non per opportunismo ma per dovere istituzionale in particolare su fatti che riguardano magistrati sotto procedimento disciplinare, trattati dallo stesso organo di autogoverno di cui è componente”. L’avvocato del dottor Davigo decide di opporsi alla richiesta d’archiviazione e la querela arriva così di fronte a un giudice che decide di entrare nel merito.
L’articolo, scrive il giudice, il dottor Guido Salvini, rimarca che anche i magistrati, in forma diffusa come nella vicenda Palamara che ha coinvolto direttamente o indirettamente centinaia di magistrati, sono protagonisti di comportamenti gravemente censurabili, latu senso corruttivi. Quindi, continua il gip, non viene chiesto al dottor Davigo di smentire le proprie tesi “ma ci si interroga in modo provocatorio sulla ragione per cui egli taccia quando fenomeni in qualche modo analoghi vengano alla luce all’interno della magistratura”. E ancora: “In sostanza quello che l’editoriale indica come mancante e quindi criticabile nel comportamento del dr. Davigo non è la mancanza di abiura delle sue posizioni, quelle riguardanti il mondo della politica, ma il silenzio sui fenomeni di degenerazione del mondo giudiziario non meno preoccupanti sul piano istituzionale e che, come magistrato, lo toccavano da vicino”.
Il gip, riconoscendo che non è peregrina l’obiezione del dottor Davigo relativa al fatto che all’epoca facendo parte della sezione disciplinare del Csm era tenuto a un dovere di riservatezza, fa però un passo in più e affronta alcune tematiche interessanti. All’autore dell’articolo, scrive, può essere mossa una critica di superficialità, parzialità, “ovvero quella di non aver esposto tutti gli elementi del caso di cui stava scrivendo”, anche se “tali rilievi non trasformano automaticamente l’articolo, continente nelle espressioni usate e riguardante un caso di grande interesse pubblico, in un testo diffamatorio”. Ma detto questo, scrive il gip, bisogna riconoscere che si ridurrebbero enormemente il dibattito culturale e gli spazi di discussione pubblica se “ogni argomentazione anche inesatta e criticabile, assumesse automaticamente rilievo penale”. E bisogna poi riconoscere un’altra piccola verità, che il gip sceglie di riassumere così: “… tenuto conto che il dr. Davigo non era solo componente del Csm ma fondatore e tra i ‘capi’ di una corrente della magistratura, qualche presa di posizione o intervento generale sul fenomeno del ‘correntismo’, anche solo per negarlo o ridimensionarlo, e senza soffermarsi sulle responsabilità di singoli soggetti, gli sarebbe stato ampiamente consentito. Così come eventuali proposte per un’azione di riforma e di rinnovamento al fine di evitare il ripetersi di danni alla giustizia. E in qualche modo un suo commento poteva essere atteso in ragione della frequenza dei suoi interventi su temi analoghi e in ragione della sua veste di animatore della corrente che viene chiamata giornalisticamente con il suo nome (i ‘davighiani’)”. Conclusione del gip, che ha chiesto poi l’archiviazione della querela di Davigo nei nostri confronti: “In sostanza quello che l’editoriale indica come mancante e quindi criticabile nel comportamento del dr. Davigo non è la mancanza di abiura delle sue posizioni, quelle riguardanti il mondo della politica, ma il silenzio sui fenomeni di degenerazione del mondo giudiziario non meno preoccupanti sul piano istituzionale e che, come magistrato, lo toccavano da vicino”. La storia è piccola, naturalmente, ma aiuta a rendere chiaro un elemento cruciale del dibattito pubblico: il diritto di critica vale anche nei confronti dei magistrati, i magistrati che decidono di diventare personaggi pubblici possono essere chiamati a rispondere anche delle loro non azioni e se le pacate critiche ai magistrati fossero trasformate dai magistrati in critiche inaccettabili, criticare un magistrato in Italia rischierebbe di essere simile a criticare un ayatollah in Iran. E, Fogliuzzo a parte, una sentenza che ci aiuta a ricordare che differenza c’è tra una democrazia aperta e una repubblica giudiziaria è una sentenza che merita di essere condivisa.