Il boom post pandemico ha un guaio: la scarsità
Container alle stelle, materie prime introvabili, porti ingolfati (non per il green pass) e primi segni negativi da America e Germania. Cosa manca nell’agenda Draghi
The nightmare before Christmas: più che il green pass, il problema sono i regali di Natale. Le immagini arrivate ieri pomeriggio dal porto di Trieste, dove centinaia e centinaia di manifestanti si sono nuovamente riuniti per protestare contro il green pass, meriterebbero di essere messe a fuoco per una ragione più importante rispetto ai temi legati alla piccola rivolta contro il certificato verde. Una ragione che non ha a che fare con le decisioni adottate dal governo italiano per governare la pandemia ma che ha a che fare con ciò che i grandi porti come Trieste rappresentano oggi per chi cerca di fare un passo lontano dall’emergenza pandemica. In Italia si parla di porti per misurare il grado di accettazione nella popolazione della rivoluzione del green pass ma nel resto del mondo quando si parla di porti lo si fa per ragionare su una questione ancora più delicata che riguarda il principale ostacolo di fronte al quale si trovano oggi le economie che cercano di rimbalzare dopo la crisi dello scorso anno: l’ingolfamento dei porti e il rischio di non ricevere tutti i regali di Natale.
Direte: e che c’entrano i regali di Natale con la pandemia? E che c’entrano i regali di Natale con i porti? C’entrano per una ragione perfettamente sintetizzata qualche settimana fa dall’Economist, che ha dedicato una splendida copertina a un tema destinato a entrare presto nella nostra agenda politica: la stagione della scarsità. Una stagione in cui i prezzi salgono. In cui le materie prime scarseggiano. In cui le catene di approvvigionamento faticano. In cui il costo dei container ha registrato un aumento del 351 per cento rispetto a un anno fa. In cui i costi per una spedizione da Shanghai a Genova sono cresciuti del 594 per cento rispetto a un anno fa. In cui il tempo necessario per spedire un articolo dall’Asia agli Stati Uniti è raddoppiato sia per quanto riguarda i trasporti marittimi sia per quanto riguarda i trasporti aerei. In cui i prezzi all’importazione sono aumentati del 17,7 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. In cui gli editori, preoccupati dalla carenza di carta e dai ritardi nelle spedizioni, stanno cercando di posticipare alcune uscite autunnali all’inizio del prossimo anno. Una stagione in cui il Regno Unito è a corto di circa 100 mila autotrasportatori (80 mila sono quelli che vengono cercati in Germania, 800 mila sono quelli che vengono cercati in tutta l’Unione europea). Una stagione in cui i porti di mezza Europa sono pieni di container che nessuno riesce a prelevare in tempo. In cui Ups e FedEx, giganti delle spedizioni, si stanno affrettando ad assumere migliaia di autisti di camion e gestori di pacchi. In cui il servizio postale degli Stati Uniti ha messo in campo piani per assumere 40 mila lavoratori stagionali e dirottare 33 mila dipendenti alla gestione dei pacchi. In cui la Casa Bianca è stata costretta a nominare un inviato per affrontare la congestione nei porti statunitensi. E in cui un gigante come Amazon, convinto che quella che sta per arrivare “potrebbe essere la stagione dello shopping natalizio più grande e impegnativa di sempre”, è alla ricerca di 150 mila lavoratori stagionali per spedire pacchi, è stato costretto a offrire un bonus di accesso pari a 3.000 dollari ed è arrivato a consigliare agli acquirenti di acquistare i regali di Natale con quattro settimane di anticipo rispetto al Natale, prevedendo che l’interruzione della catena di approvvigionamento possa protrarsi almeno fino alla primavera del prossimo anno.
Si dirà, anche qui: ma a noi cosa importa? Non è una minaccia remota? Non è paura astratta? Non è un timore esagerato? Purtroppo no.
Lo dimostrano i dati che arrivano dall’America, dove la crescita nel terzo trimestre è risultata inferiore alle attese anche a causa di un calo dei consumi dovuto a un aumento dei prezzi del 5,4 per cento, ai massimi dal 2008. Lo dimostrano anche i dati che arrivano dalla Germania, dove il ministro dell’Economia uscente, Peter Altmaier, due giorni fa ha detto che la crescita sarà inferiore a quanto previsto a causa di “un’industria manifatturiera che soffre di carenza di materie prime e prodotti intermedi e un aumento dei prezzi dell’energia che insieme alle strozzature nell’approvvigionamento non permetteranno alla Germania di avere lo sprint di fine anno che ci si attendeva”.
Vale per la Germania, vale per gli Stati Uniti ma rischia di valere anche per l’Italia, dove la crescita continua a essere molto decisa ma dove i segnali di preoccupazione iniziano a essere significativi, come certifica l’ultimo bollettino di Bankitalia, datato 27 ottobre. Nel bollettino, Palazzo Koch stima che nel terzo trimestre la crescita del pil è stata superiore al 2 per cento, ma nota che a settembre diversi indicatori hanno registrato qualche segno di cedimento a causa, anche qui, “dei problemi di approvvigionamento delle imprese manifatturiere”. Non solo.
Secondo un campione di 1.500 imprese sentite da Bankitalia, “l’andamento dei prezzi dell’energia, petrolio in primis, rappresenta un fattore di incertezza mentre l’indisponibilità di input intermedi viene classificata come il più rilevante fattore di ostacolo per l’attività delle imprese dell’industria in senso stretto”. In particolare, “circa il 20 per cento delle aziende di servizi ha incontrato difficoltà nel reperire gli input produttivi nei primi nove mesi del 2021”. Percentuale che sale al 60 per cento “per il campione delle sole aziende appartenenti all’industria in senso stretto, specialmente nei comparti della chimica, della gomma, della plastica e della metalmeccanica”.
“Il Covid – ha detto al New York Times Neel Jones Shah, responsabile globale del trasporto aereo di Flexport, una società di tecnologia leader nella logistica – ha capovolto le catene di approvvigionamento. Oggi stiamo assistendo a un aumento astronomico delle tariffe di spedizione, un drammatico allungamento dei tempi di transito e un ingorgo di merci in ogni porto. Gli spedizionieri si stanno affannando per capire come portare le loro merci sul mercato in tempo per la stagione delle vendite natalizie”.
Le ragioni che si trovano dietro al rischio collasso sono semplici e per certi versi persino affascinanti. Troppa richiesta di produzione, in un periodo in cui la produzione era già a scartamento ridotto, ha finito per creare un ingolfamento ancora più grande e una quantità spropositata di denaro accumulata nei mesi della pandemia (il risparmio messo da parte durante i mesi dell’emergenza si attesta intorno ai 5 trilioni di dollari) ha creato una domanda che nessuno riesce a soddisfare fino in fondo. I grandi giornali economici di tutto il mondo sospettano che per Natale ci si dovrà organizzare per tempo, e probabilmente hanno ragione, ma il dato forse più interessante che riguarda la stagione della scarsità è più culturale che economico ed è un dato che ci permette di archiviare anni di inutili dibattiti sulla globalizzazione. Il problema oggi non è più discutere se la velocità della globalizzazione sia o meno dannosa, ma è cercare un modo per adattare la globalizzazione alla velocità del nuovo corso post pandemico. Il mondo sta capendo che con la decrescita i regali non arrivano. E questo, a suo modo, è, già con un po’ di anticipo, un discreto regalino di Natale. Più che il green pass, parlando di porti, il problema sono i regali, e una volta esaurito il tema proteste a Trieste forse varrà la pena ripartire da qui: the nightmare before Christmas.