Governare le microfratture dei partiti. È il metodo Draghi
Altro che commissariata. Il presidente del Consiglio ha rivitalizzato la politica creando divisioni in ogni partito. E i duelli che decideranno le sorti della legislatura ci dicono che alternative per il Quirinale non ci sono
E se fossero le microfratture a decidere il futuro di questa legislatura? Uno degli effetti più sottovalutati generati dall’azione del governo Draghi riguarda una particolarissima dinamica che si è andata a consolidare nei rapporti tra il presidente del Consiglio e le leadership dei partiti, più o meno dal giorno stesso in cui è nato l’attuale esecutivo. La dinamica è figlia di una scelta precisa e cinica fatta da Draghi nove mesi fa durante la formazione del governo, quando, con molta saggezza, ha deciso di tenere fuori dal Consiglio dei ministri i leader politici, tranne Roberto Speranza, scommettendo nei vari dicasteri sui volti più moderati dei partiti e trasformando a poco a poco i vari ministri in qualcosa di più simile a portavoce del governo nei partiti che a portavoce dei partiti all’interno del governo.
Nel corso del tempo, la disarticolazione soft delle leadership dei partiti ha prodotto un esito evidente di cui abbiamo già discusso a lungo. In alcuni casi, ha costretto i partiti a cambiare linea in modo drastico su diversi temi (è il caso della Lega, che, pur avendo una leadership politica che all’ultimo congresso ha presentato una piattaforma per uscire dall’euro, oggi appoggia un governo che considera l’euro irreversibile).
In altri casi ha costretto i partiti a cambiare il rapporto con i propri alleati (Lega e Forza Italia ormai sono di fatto un partito unico). In altri casi ancora ha costretto i partiti a cambiare leadership (sia il Pd sia il M5s oggi non sono guidati dai leader che hanno portato il Pd e il M5s in questo governo).
La disarticolazione soft imposta da Draghi – che i partiti, piuttosto che commissariarli, li ha rivitalizzati – ha prodotto anche un altro effetto interessante con cui oggi tutti i soggetti politici, da quelli più solidi a quelli più fragili, stanno facendo i conti: l’affermazione di una stagione pazza caratterizzata da una moltiplicazione costante di microfratture presenti nei partiti.
La deideologizzazione dei problemi complessi veicolata dal metodo Draghi (metodo che grosso modo funziona così: prendi un problema complesso, trasforma quel problema in una questione di interesse nazionale, fai della risoluzione di quel problema una questione di buon senso e trasforma chiunque non sia d’accordo con la tua soluzione in un nemico dell’interesse nazionale) ha spinto i partiti a dividersi un po’ di meno sui grandi temi e a spaccarsi un po’ di più sui piccoli temi. E il risultato è che i partiti che si trovano all’interno del governo oggi sono attraversati da una serie interminabile di tensioni a bassa intensità che sommate le une con le altre renderanno con ogni probabilità molto difficile alle coalizioni di centrodestra, di centrosinistra e di centro un’azione di disturbo all’unica vera candidatura che esiste oggi in campo per il Quirinale: quella di Mario Draghi.
E se ci si riflette un istante si noterà che le microfratture, in questo Parlamento, sono ovunque. Sono nel M5s, dove le leadership di Giuseppe Conte e di Luigi Di Maio appaiono sempre meno complementari e sempre più alternative (ormai il governo quando deve trattare con il M5s su un qualunque dossier tratta con Di Maio e Conte come se fossero leader di due partiti diversi). Sono nella Lega, naturalmente, un partito all’interno del quale la leadership di Salvini appare ormai solo nominale e all’interno del quale Salvini non ha più l’ultima parola né sulle linee di politica economica (per quello c’è Giancarlo Giorgetti) né sulle linee di politica sanitaria (per quello c’è Massimiliano Fedriga).
Sono nella Lega, le microfratture, ma sono anche nella coalizione di centrodestra (Salvini vs Meloni). Sono anche all’interno di Forza Italia, dove la battaglia a bassa intensità tra gli esponenti politici più vicini a Draghi (che sono i dirigenti che si trovano al governo) e quelli più distanti da Draghi (che sono i dirigenti che hanno un ruolo in Parlamento ma non nel governo) somiglia a una frattura destinata prima o poi a trasformarsi in una crepa.
Sono al centro, ovviamente, con le microfratture tra Matteo Renzi e Carlo Calenda che emergono ogni giorno alla luce del sole. E sono anche, seppure con un’intensità minore rispetto ad altri partiti, all’interno del Pd, dove le conflittualità latenti sono in buona parte legate alla sfida del Quirinale (tra il segretario del Pd e ogni candidato al Quirinale, vero o presunto che esso sia, da Paolo Gentiloni a Lorenzo Guerini passando per Dario Franceschini e Romano Prodi, esiste una qualche divergenza più o meno latente).
La geopolitica delle microfratture dei partiti – sommate alle microfratture ancora più latenti del Parlamento, all’interno del quale i passaggi da un gruppo all’altro sono ormai all’ordine del giorno e all’interno del quale i nuovi partiti spuntano come funghi con l’ambizione di poter giocare un qualche piccolo ruolo nella partita del Quirinale – è lì a dirci che la scenetta che stiamo osservando in questi giorni attorno a Mario Draghi è destinata a non durare troppo a lungo. E non è difficile prevedere che gli stessi leader di partito (da Salvini a Letta) che oggi danno fortissimamente l’impressione di non voler allontanare Draghi da Palazzo Chigi, una volta che si troveranno a un passo dall’appuntamento con il rinnovo del Quirinale capiranno che la principale partita che si andrà a giocare per il dopo Mattarella sarà una e soltanto una: affrettarsi per evitare che la candidatura di Draghi al Quirinale possa diventare la bandiera di un partito o di una coalizione. E se la politica ha un senso, all’inizio del nuovo anno il leader del Pd e il segretario della Lega comprenderanno che l’unico modo per governare le microfratture dei propri partiti e delle proprie coalizioni è scommettere su chi oggi quelle microfratture riesce a governarle dopo averle alimentate. È il metodo Draghi, bellezza.