il retroscena

Conte e Bettini vogliono Draghi al Colle. Ma i parlamentari non si fidano

Le manovre intorno a Franco. I nodi da sciogliere su Pnrr (chiedere a Gentiloni) e sui vaccini (chiedere a Orlando e Boccia).

Valerio Valentini

Variante peone. Le truppe rossogialle non credono in un nuovo governo, dopo l'apoteosi quirinalizia del premier. Letta tentenna: "Salvaguardiamo Super Mario". Di Maio pensa al Matterella bis, Franceschini teme la soluzione civica. La "carica dei 350 cavalli pazzi"

Se n’è convinto il consigliere, che ha poi convinto il consigliato. “Bisogna eleggere Draghi al Quirinale”. Lo pensa Goffredo Bettini, gran visir del Pd. Lo pensa quindi anche Giuseppe Conte, che ne ascolta con zelo i suggerimenti. Solo che poi vanno convinte le truppe, perché a votare nel segreto dell’urna sono i singoli soldati. E né Di Maio da un lato e né Franceschini dall’altro  sono convinti che ci siano margini per mandare il premier al Colle. 

 

E’ bastato anzi che il fu Avvocato del popolo andasse in tv a benedire l’ipotesi, perché i peones grillini si convincessero che proprio sforzandosi di fugarlo, Conte avesse invece convalidato il dubbio da tutti coltivato, e cioè che eleggendo Draghi al Quirinale si precipiterebbe verso il voto anticipato. E allora ecco il giro di telefonate tra ex ministri del BisConte, ecco i parlamentari allarmati che consultano Riccardo Fraccaro, Lucia Azzolina, Stefano Buffagni: e tutti ne escono rafforzati nel sospetto: “Vuole farci fare la fine dei capponi a Natale”. Al che Luigi Di Maio ha fatto in modo che i suoi fedelissimi provassero a giocare il ruolo di chi rassicura: “Tranquilli, avendo costretto Conte a dire che il nostro candidato al Colle si sceglie online, Draghi è praticamente bruciato”. E non sarà un caso se la soluzione che il ministro degli Esteri ha prospettato ai suoi confidenti è la stessa su cui sono convenuti deputati del M5s e del Pd che avevano parlato rispettivamente con Federico D’Incà ed Enzo Amendola, e cioè che l’ideale sarebbe lasciare le cose come stanno: Draghi a Palazzo Chigi e Mattarella al Colle.

Il che consentirebbe peraltro di evitare il rischio che Enrico Letta considera esiziale: delegittimare, impallinandolo nel segreto dell’urna, “quel patrimonio nazionale che è Draghi e che tutti dovremmo salvaguardare”. Il segretario resta una sfinge, sul tema del Colle. E però a margine della direzione della scorsa settimana, s’è fatto sfuggire che “essere il partito che sostiene Draghi ci consente di avere una centralità nell’agenda che va oltre il nostro effettivo peso numerico in Parlamento”: e a quella constatazione decine di parlamentari si sono aggrappati: “Visto? Anche Enrico vuole tenerlo a Palazzo Chigi fino al 2023”. 

E forse sarà pure vero, come va ripetendo Conte, che è stato lo stesso premier a lanciare segnali d’insofferenza inediti, durante le trattative sulla legge di Bilancio, come di chi ambisse al trasferimento ad altra, più durevole, sede. Ma l’ipotesi che Conte vagheggia, quella di Daniele Franco al posto di Draghi, in Transatlantico non convince quasi nessuno. Anche perché la garanzia che intorno a un nuovo governo si troverebbe comunque una sintesi, deve arrivare per tempo. L’ex capo della Bce dovrebbe insomma trovare subito il governo che rimpiazzi il suo, e poi proporsi come capo dello stato di tutti. E però è sulla difficoltà di questo hysteron proteron, di fare insomma accadere prima quel che logica e prassi impongono che si realizzi dopo, che si consolida la paura dei peones. In rappresentanza dei quali, un ministro del Pd ha consultato chi la palude del Misto e degli ex grillini (“Almeno 350 cavalli sciolti che nessuno, se non la paura di tornare anzitempo a casa, controllerà”) la conosce bene, a Montecitorio. E s’è sentito prefigurare uno scenario fantasioso: quello, cioè, di un Draghi che un minuto dopo l’approvazione delle legge di Bilancio si dimette, battezza un nuovo governo, con o senza il sostegno della Lega, per poi imporsi come candidato d’obbligo al Quirinale. “Solo così potrebbe convincerci che non si va al voto”.

Ma nei ministeri in prima linea sul Recovery, c’è chi al solo pensarci trasalisce. Perché sì, è vero che tanto è stato fatto sulle due emergenze – lotta alla pandemia e allestimento del Pnrr – in nome delle quali Draghi è stato chiamato a Palazzo Chigi. Ma chi potrebbe dire, oltre ogni ragionevole dubbio, che le due missioni sono state compiute? Chi ha partecipato ai primi confronti con la Commissione europea sull’attuazione del Pnrr, la scorsa settimana, ammette “che senza la rassicurazione della presenza di Draghi, la benevolenza su certi nostri ritardi non sarebbe stata scontata”. Quanto al Covid, mesi fa Andrea Orlando confidò ai suoi parlamentari che molto, nella indecifrabile partita per il Colle, sarebbe dipeso dall’andamento del virus. E sarà un caso, ma i senatori che hanno parlato con Francesco Boccia, nei giorni scorsi, si sono sentiti fare la stessa domanda: “Se ripartono i contagi, come potremmo dire che l’obiettivo è stato raggiunto?”. 

Un rebus rossogiallo, insomma, dettato dallo spread tra i disegni dei leader e le paure di capicorrente e truppe al seguito. E forse anche per questo Franceschini, un paio di settimane fa a un deputato faceva una battuta densa di rammarico: “Con un Parlamento così incontrollabile, si rischia di trovare un’intesa solo intorno a un nome civico”. Per lui, una sciagura. 
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.