oggi in cdm
Sul ddl Concorrenza vincono i capricci dei partiti. Cronaca di un mezzo flop
I veti dei partiti, le cautele di Garofoli, i continui rinvii, un testo sempre più scarno. E dalla montagna si è partorito un topolino
Ma è mai possibile che in questo paese sia più facile introdurre il green pass che fare una legge decente sulla concorrenza? Marco D’Alberti deve essersela fatta più volte, questa domanda, negli ultimi giorni. Ben prima del tardo pomeriggio di ieri, quando a Palazzo Chigi s’è riunita l’ennesima cabina di regia sul tema. Ha iniziato a porsela, D’Alberti, già mercoledì scorso, quando era stato incaricato da Mario Draghi d’illustrare ai vari ministri il disegno di legge. E forse è stata proprio l’impostazione troppo professorale della relazione di questo decano del Diritto amministrativo, uomo di studi e di letture raffinati, ad aver indisposto i membri dell’esecutivo. Che invece chiedevano le carte, volevano accanirsi sui dettagli, sui commi. “Sono un ingegnere triestino, sono abituato a guardare le carte”, era sbottato Stefano Patuanelli. Al che il premier, che faceva dentro e fuori dalla sala dove era in corso la riunione, aveva deciso di rimandare: “Aggiorniamoci nei prossimi giorni”.
Ddl concorrenza, i capricci dei partiti hanno la meglio
Strategia non nuova, quella di Draghi. Almeno sul fronte della concorrenza. Il cui ddl doveva arrivare a luglio, poi slittò a settembre, infine a ottobre. E a ogni rinvio, le pretese dei partiti (compresa quella di aumentare il numero dei componenti di nomina politica dell'Antitrust), ingarbugliavano ancor più la matassa da sbrogliare. Così l’unica soluzione per evitare l’impantanarsi definitivo è stato sfrondare, sfoltire, aggirare i problemi più controversi. E insomma il testo che oggi andrà in Cdm pare destinato a essere assai più scarno di quel che ci si aspettava. Perfino più di quello che si attendevano a Bruxelles. Dove avevano già concesso il rinvio della scadenza (non più luglio 2021, ma dicembre 2022) e la possibilità di diluire la portata complessiva del provvedimento di qui al 2026 a colpi di aggiornamenti annuali. E però, anche rispetto a quanto rinegoziato con la Commissione, dalle bozze del ddl sono stati espunti alcuni degli articoli che riguardano l’autoproduzione nei porti o il trasporto pubblico locale. Tutto per non scontentare questa o quella categoria, e i rispettivi partiti di riferimento.
E più o meno per la stessa ragione si è deciso di rimandare in parte il nodo degli ambulanti, e di aggirare del tutto quello dei balneari. “Su cui comunque si esprimerà a breve il Consiglio di stato”, ripete il premier. Ma certo non serviva un Draghi, per rinnovare la vecchia abitudine del legislatore italiano di rimettersi alle volontà dei giudici amministrativi. I quali al massimo potranno, come pare scontato, solo sancire l’illegittimità della proroga fino al 2023 sulle concessioni balneari concessa dal Conte I, non certo disporne la messa a gara. Si rinvia, insomma, aspettando che siano le toghe a togliere alibi ai partiti. È anche una questione di tenuta sociale, dicono a Palazzo Chigi: perché a forzare troppo la mano, come forse vorrebbe D’Alberti e insieme a lui anche quel Francesco Giavazzi che è consulente economico del premier, si rischia di ritrovarsi con commercianti e tassisti (a proposito, i tassisti: altro nodo che parrebbe eluso, nel ddl) sulle barricate. “E dunque cautela”, predica il sottosegretario Roberto Garofoli.
Rinviati i nodi degli ambulanti e dei balneari
Solo che nella palude dei veti incrociati, succede che M5s e Pd addossano alle rimostranze del Carroccio la resa sulla Bolkestein, e dunque rivendicano anche loro la liceità dei loro puntigli. “Sulla Sanità il Covid ci ha insegnato che non possiamo permetterci alcun cedimento alla logica del privato”, ha dunque obiettato il grillino Patuanelli, sostenuto da Roberto Speranza, davanti a D’Alberti. Ma su questo fronte in realtà qualche importante passo avanti ci sarà, alla fine. Non solo sulla spinta ai farmaci generici, ma anche sull’accreditamento (maggiore peso, oltre ai volumi delle prestazioni, avrà la qualità dei servizi erogati) e sulle convenzioni delle strutture sanitarie private. Qui è stata la forzista Mariastella Gelmini a mugugnare un po’: ma la babele normativa a livello locale verrà effettivamente regolata, pare, imponendo alle regioni di pubblicare periodicamente gli avvisi di gara con parametri trasparenti.
La Lega dovrà accettare la norma sulle concessioni idroelettriche, con l’abbattimento dei costi di subentro che renderà più accessibili le gare. Sopravviverà anche la modifica sul trattamento dei rifiuti. Era stato quello l’inciampo su cui una settimana fa si era deciso di sciogliere la seduta, per unanime scetticismo dei ministri. Ma i tecnici del premier, nelle riunioni ristrette di questi giorni, ne hanno spiegato la ratio: si preclude cioè ai comuni di fare delle gare uniche per assegnare a una singola impresa la gestione integrata, restringendo i bandi a raccolta e trattamento, ma si lascia che poi il problema dello smaltimento venga risolto dal privato.
Troppo poco? Che non sia molto, lo sanno anche a Palazzo Chigi. E del resto Garofoli ai suoi interlocutori dice che l’importante è farla, questa legge che dal 2009 dovrebbe essere rinnovata ogni anno. E che invece ogni anno (se si esclude il 2017, governo Gentiloni), viene fatta lievitare oltremisura prima di essere puntualmente abortita. E però che si rischiavano troppi compromessi al ribasso deve essersene accorto anche Draghi, che pure di privatizzazioni, da dg del Tesoro, seppe farne parecchie, se è vero che di ritorno da Glasgow ha preso in mano personalmente il dossier, prima di convocare la nuova cabina di regia nel pomeriggio di ieri. Anche lì si è discusso, anche lì si è bisticciato. Ma il premier ha concesso poco, stavolta, alle pretese di parte. Di cedimenti, di rinvii, ce ne sono stati già troppi sulla concorrenza. Oggi si chiude.