La svolta
Orlando dimostra che il solo modo per mantenere il Rdc è ribaltarlo
Le dieci proposte di modifica presentate dalla Commissione sul Reddito riconoscono che il bonus grillino è un disincentivo al lavoro. Il nuovo reddito torna nel solco del Reddito di inclusione. I paradossi dell'"abolizione della povertà", uno per uno
L’obiettivo dichiarato è quello di riformarlo in una logica di continuità. Lo scopo reale, messo nero su bianco, è però quello di stravolgerlo. Le dieci proposte di modifica del Reddito di cittadinanza presentate oggi dal ministro del Lavoro Andrea Orlando e dalla sua consulente, la professoressa Chiara Saraceno, dimostrano che l’unico modo per tenerlo in vita, questo strumento, consiste nel renderlo radicalmente diverso da ciò che è. Confutare insomma la filosofia che ne sta alla base, pur di lasciare immutato il nome.
Partendo anzitutto dall’ammissione di una evidente anomalia: e cioè che il Rdc, nato per sostenere il reinserimento degli inoccupati nel mondo del lavoro, rappresenta un clamoroso disincentivo al lavoro. E a sostenerlo è proprio la commissione ministeriale guidata dalla Saraceno. “Oggi, a un percettore del Rdc, lavorare non conviene”, si legge a pagina quattro del rapporto. “Infatti, in presenza di un incremento di reddito da lavoro, l’80 per cento di questo concorre alla definizione dell’importo della prestazione (...).Di fatto, è come prevedere una tassazione dell’80 per cento sul nuovo reddito”. E questo solo per i primi mesi. Perché “entro un anno da quando si inizia a riceverlo, questa percentuale salirà al 100 per cento”. Per questo, la commissione propone di tassare il reddito da lavoro solo al 60 per cento. Andando dunque anche oltre le intenzioni del governo, che in legge di Bilancio ha fissato questa quota all’80 per cento in modo stabile.
In secondo luogo, la Saraceno e i suoi collaboratori concordano nel considerare irrealistici i parametri attraverso cui il Rdc definisce “congrua, e dunque non rifiutabile, un’offerta di lavoro”. Il motivo è duplice. I beneficiari del sussidio “spesso non hanno una esperienza recente di lavoro e hanno qualifiche molto basse”. Inoltre, si legge nella relazione, “i settori in cui potrebbero trovare un’occupazione sono spesso caratterizzati da una forte stagionalità”. E dunque pretendere che proprio queste persone, così difficilmente occupabili, debbano trovare un lavoro di qualità, è un’illusione. Ecco che allora la commissione Saraceno propone di considerare “congrui non solo contratti di lavoro che abbiano una durata massima non inferiore a tre mesi, ma anche contratti di lavoro per un tempo più breve, purché non inferiori al mese, per incoraggiare persone spesso molto distanti dal mercato del lavoro a iniziare a entrarvi”. E lo stesso paradosso coinvolge anche le regole degli incentivi ai datori di lavoro, riservati solo alle assunzioni a tempo indeterminato. Un’aporia fotografata bene dai consulenti di Orlando.
“Il mercato del lavoro – scrivono a pagina 8 – non sempre presenta queste condizioni (il tempo indeterminato, ndr), soprattutto all’ingresso, anche per chi non è, a differenza dei beneficiari del Rdc, in situazione di particolare fragilità”. E così la commissione Saraceno chiede di estendere l’incentivo alle imprese anche “nel caso di assunzioni con contratto a tempo determinato, purché con orario pieno e di durata almeno annuale”.
Non basta. Perché la commissione suggerisce anche di “abolire l’obbligo di spendere l’intero contributo economico entro una scadenza predefinita”, evidenziando l’assurdità di una misura che voleva “abolire la povertà” ma anche i risparmi dei poveri, nell’idea che i consumi interni potessero essere stimolati a colpi di bonus, imponendo ai percettori di dilapidare il sussidio nel giro di un mese. Si propone inoltre di “rafforzare e formare adeguatamente l’organico dei servizi sociali comunali” per attivare dei veri “progetti di utilità collettiva” (i famosi lavori socialmente utili che avrebbero dovuto svolgere i percettori del Rdc), nonché di distinguere tra i beneficiari da affidare ai servizi sociali, cioè quelli più disagiati e fragili, e quelli a cui sottoporre una dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro, al fine di non sovraccaricare oltremodo i centri per l’impiego. Che, come ha ammesso la Saraceno, “non erano preparati, numericamente e professionalmente”. Insomma, un grande ritorno verso la logica del Rei, il Reddito di inclusione varato dal governo Gentiloni nel 2017. E qui si evidenzia l’altro vizio originale del Rdc: l’aver voluto, da parte del M5s, smantellare l’architettura esistente, per quanto deficitaria, anziché potenziarla. Il tutto nell’ansia di intestarsi una misura nuova, dal nome più intrigante, con tanto di presentazioni coreografiche con card nelle teche di vetro e show di corredo da parte di Mimmo Parisi, dimenticabilissimo presidente dell’Anpal.
E del resto, oltre a essere inefficace sul piano delle politiche attive, il Rdc si rivela anche iniquo sul fronte della lotta alla povertà. A riconoscerlo è la stessa commissione Saraceno, che critica fortemente sia la discriminazione nei confronti degli stranieri (proponendo di ridurre da 10 a 5 anni il periodo minimo di permanenza per richiedere l’accesso al sussidio), sia le scale di equivalenza finora adottate, che favorivano i single e le famiglie poco numerose, rispetto ai nuclei più grandi e con minorenni a carico. Per tre anni, chi ha avanzato queste stesse perplessità è stato additato come nemico del popolo, odiatore dei poveri più che della povertà. La relazione presentata ieri da Orlando, tra le altre cose, confuta anche questa mistificazione.