Filosofia del Recovery
Basta retorica sui soldi europei
Meglio meno, ma meglio. Il Pnrr tra esprit publique e difetti nazionali. Muoversi senza complessi ridimensionando le pretese improbabili. Soldi, Ue e limiti.
Siamo caratterizzati, come qui tornava a ricordare ieri Sabino Cassese, da una insigne faiblesse (una debolezza virtuosa e madornale): così il prodigioso storico Fernand Braudel definisce come carattere italiano la mancanza di un centro amministrativo e politico forte, che fa la differenza tra noi e i grandi stati-nazione del sistema politico europeo. Spendere i soldi che la svolta dell’Unione ha reso accessibili, spenderli bene, con efficienza e trasparenza, tutti o quasi tutti, nei tempi giusti, con l’obiettivo di riformare, trasformare, riequilibrare ciò che di patologico ci divide da paesi più moderni e produttivi: questo mantra, che si rubrica sotto la sfortunata sigla Pnrr, sonora come un lazzo, va maneggiato con cura, senza retorica e senza verbosità. Diffidare delle progettualità troppo astratte e grandiose è un modo per realizzare progetti e, come sempre, fare quel che si può, magari un poco di più, ma non troppo di più.
Duecento e più miliardi possono rivelarci a noi stessi come siamo e come vorremmo essere, ma non sono un nuovo verbo, un messaggio di apocalissi progressiva intergenerazionale. Irrobustire ed estendere le reti (ferroviarie, stradali, digitali, energetiche, infrastrutturali, educative e formative) è un compito possibile, un obiettivo meno retorico e più realistico del cambiamento radicale, della rigenerazione. Il centro mancante, con la sua forza statale, con il suo orientamento all’interesse pubblico, la sua connessa idea di autorità e di disciplina, non si ricostruisce in una decina d’anni, non è affare per questa e per la prossima generazione, tanto evocate nella loro presunta staffetta riformista, è faccenda inafferrabile di lunga durata. Ci vogliono innumerevoli connessioni e interconnessioni con la storia del mondo, posto che fra cento duecento anni si abbia ancora voglia e mezzi mentali per studiarla, allo scopo di avere per le mani un’altra Italia possibile. Tanto più che a leggere certi segni che vanno da Singapore al Regno Unito, dall’Austria alla Germania, non si può mai sapere bene quanto di pessimo e quanto di ottimo ci riesca a dare il nostro pluralismo politico e civile, lo stellone della nostra diversità.
Con o senza Draghi siamo diversi, certo, e però questo elemento carismatico e personale di centralismo orientato all’esprit publique si combina con difetti nazionali che hanno sempre fatto, non si dirà la nostra fortuna, ma almeno la nostra capacità di manovrare con destrezza intorno alle disgrazie, talvolta meglio di quanto riesca ad altri ben più attrezzati per via di una storia fatta di compattezza e peso centrale nelle scelte fondamentali. In un suo saggio, Cassese diceva che Downing Street conta cinque volte Palazzo Chigi e ha venti volte, se ricordo bene, meno dipendenti, e l’Eliseo è una modesta casetta rispetto al Quirinale, costa sei volte meno, ma il suo inquilino ha poteri cinque volte superiori a quelli del nostro capo dello stato. Tutti sappiamo che abbiamo supplito alla cronica instabilità dei governi con il richiamo in servizio diretto dei Grand Commis de l’Etat, e siamo gli unici a potercelo permettere senza esautorare più di tanto le regole della democrazia parlamentare: insomma, siamo il paese dei problemi cronici, disperanti, e delle soluzioni sorprendenti, spesso confortanti, in particolare nelle emergenze.
Il famoso Pnrr va affrontato con questa consapevolezza postideologica ed extraretorica, un ordine di priorità scritto su assi cartesiani, un insieme di cose da finanziare e di apparati da incaricare per la spesa efficiente, un controllo sorvegliato e non invasivo, un metodo sperimentato nei nostri momenti migliori. Chi c’è c’è, compresa la pletorica falange amministrativa del comune di Napoli, e chi non c’è, per competenza e formazione, va un po’ inventato lì per lì. Quello che non si può né predicare né fare è presupporre un paese che non esiste, impegnato in una riforma delle riforme che promette miracoli trasformativi epocali e annuncia delusioni cocenti. Muoversi senza complessi e scorrerie parolaie verso il limite oltre il quale si stagliano gli ostacoli, ridimensionando pretese improbabili. Meglio meno, ma meglio.