Gustavo Zagrebelsky (Ansa)

I tromboni del quirinale

Zagrebelsky chiede trasparenza per il Colle. Risate

Giuliano Ferrara

I partiti hanno fatto del voto quirinalizio il pozzo dei loro desideri. Ma ora un garante c’è

Fosse per avere qualcuno che rappresenti l’unità della nazione, la cerimonia di ogni giorno al posto del famoso plebiscito di ogni giorno (Renan), il voto per Mario Draghi al Quirinale dovrebbe essere una pura formalità, un atto notarile. Ha formato e dirige da quasi un anno un governo fondato su una maggioranza di unità nazionale (anche l’unica opposizione è guidata da un leader, Giorgia Meloni, che ogni poco si scappella di fronte alle sue qualità personali). La cosa non ha precedenti. Punto. Invece la faccenda è più complicata. Il malizioso Antonio Polito nel Corriere scrive che la vociante richiesta di trattenere il capo dell’esecutivo a Palazzo Chigi in quanto Entità Irrinunciabile alla guida del governo cela un retropensiero poco limpido.

 

Coltiviamo altre ambizioni per altri, che non fa mai male, e poi vediamo che fine fa Draghi con un Parlamento balcanizzato e diviso dalla campagna presidenziale e dalla campagna elettorale di un intero anno solare, inizio 2022 fino alla primavera 2023. Malpensante ma vero. Invece il costituzionalista più trombone e pedante, e loffio, che ci sia, il professor Gustavo Zagrebelsky, difensore intermittente della Costituzione più bella del mondo, se la prende genericamente con i partiti, le loro trame segrete, la tendenza a gravare la scelta del cerimoniere con calcoli e interessi di bottega in spregio a una corretta definizione dei veri poteri del corazziere in capo. Benpensante ma falso.

 

I costituenti inventarono un metodo di elezione del “capo dello stato”, antico titolo giuridico del Re, con la sua durata in carica super partes (sette anni vaganti da una legislatura all’altra), con i suoi poteri estesi e precisissimi, salvo il superpotere elastico e versatile della cosiddetta “esternazione”, che corrispondeva perfettamente all’Italia del loro tempo. Religione cattolica di stato, divisione e compaginamento del mondo fissati dai vincitori a Yalta, paesaggio agrario imponente, suffragio universale appena costituito con il voto alle donne, preminenza su tutto del tessuto associativo e dei partiti che pervadevano con le loro culture e ideologie la vita della società e delle istituzioni, centralità effettiva del Parlamento. Era l’Italia in cui si andava a scuola con grembiulino e fiocco, classi miste una rarità, e ci si alzava in piedi all’arrivo dell’insegnante; i giornali erano la Bibbia, niente magistratura d’assalto, niente tv e men che meno televisioni plurali o social, la radio sotto controllo, la freccia più veloce della comunicazione predigitale era il telegramma. In questo contesto oligarchico, popolare e rappresentativo, illuminato dallo spirito santo laico, in assenza perfino di una Corte costituzionale (sarà operativa nel 1956), il Parlamento, non ancora affiancato dai rappresentanti delle regioni, si riuniva come seggio elettorale, senza dibattito preventivo, e votava l’Eletto o primo magistrato.

 

Siccome la realtà supera la finzione, ciò che sfugge ai suonatori di organetto e ai lettori di pandette e altri benpensanti, da sempre i partiti hanno fatto dell’elezione del presidente della Repubblica, il Re repubblicano con poteri definiti apposta per la convivenza con le organizzazioni che per la Costituzione determinano la politica nazionale, il pozzo dei loro desideri. Con quelle modalità elettorali, è stato inevitabile, e il tutto ebbe un senso correlativo all’evoluzione del sistema democratico per decenni. Ora i partiti sono in calo di rappresentatività e di cultura, sono gracili, ma il metodo è sempre quello, e ovviamente ne risultano elementi di caos e di vaghezza. Ma pretendere che non siano conciliaboli, intese trasversali, accordi segreti, tradimenti nell’urna a fare da premessa a un’elezione che si realizza in un seggio elettorale convocato solo per votare al buio e nel segreto, senza procedure che chiarificano l’esistenza o meno di candidature, senza alcun percorso istituzionale preventivo, è volere la luna della trasparenza in fondo al pozzo.

 

L’unica cosa da dire rispetto all’imminente conclave di rito antico e accettato è che stavolta il garante dell’unità nazionale c’è, tutti lo vedono perché guida il governo di unità, e senza scomodare il semipresidenzialismo di fatto, goffa uscita dell’onorevole Giorgetti, basta il presidenzialismo di diritto, cioè i poteri del Quirinale, per farne anche un garante oltre i confini in un fase di ricostruzione europea dopo tre o quattro ondate di pandemia. Non ci sono scuse e tromboni che tengano.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.