Il profilo

L'erede di Salvini. Il ritratto dell'arciduca Massimiliano Fedriga

La Lega oltre la Lega. L'interprete di un nuovo modo di stare a destra

Carmelo Caruso

L'ascesa nazionale di un moderato. Minacciato dai no vax perché "stanco di idiozie". Promotore di un super green pass per non vaccinati. La famiglia, la squadra, i progetti del presidente del Friuli Venezia Giulia. Educazione di un leader

Gli ha sempre offerto tutto. Non ha mai chiesto nulla. Era nella lista di Matteo Salvini per fare il ministro del primo governo Conte. Era nella rosa dei candidati per la presidenza della Camera. Deputato per tre legislature, capogruppo della Lega per quattro anni, presidente del Friuli Venezia Giulia da tre, della Conferenza Stato-regioni da uno. Massimiliano Fedriga è la Lega oltre la Lega. Ha 41 anni. E’ l’erede. Può avere lo stesso consenso di Salvini senza sostituire Salvini. E’ la prosecuzione che lo supera. Come capogruppo “ci manca”. Come presidente di regione “ha un gradimento che nessun altro ha in Occidente. Lo dicono i sondaggi”. Lo ha detto Salvini.

E’ stato indicato come successore naturale del capo perché non ha mai immaginato un futuro senza quel capo: “Chi parla bene di me non parla male di lui. Chi parla male di lui non può parlare bene di me”. La notte del 30 aprile del 2018, quella in cui è stato eletto presidente del Friuli Venezia Giulia (“vi prego dovete scriverli tutti e tre. Tutti e tre”) il sindaco di Trieste, Giuseppe Dipiazza, si presentò ai giornalisti per spiegare la dinamica della manovra militare, la strategia della vittoria: “Abbiamo usato un cannone per schiacciare due moscerini”. Il cannone era Fedriga.

  

E’ stato in questi mesi incoronato “arciduca”, feldmaresciallo anti stronzata, principe degli amministratori “non ho tempo da perdere”. Ha dichiarato: “Conosco solo una forma di precauzione contro il Covid. Vaccinarsi. Io l’ho fatto quando è arrivato il mio turno”.

E’ finito sotto minaccia dei no vax che lo hanno definito “reo”, “impostore”, per la frase liberazione “sono stanco delle idiozie. Il vaccino conto il Covid c’è e funziona. E lo dico chiaramente. Non è sperimentale”. Fedriga si è vaccinato con Moderna. E’ inseguito da tutti gli incoscienti “no Galileo” compresi quelli del suo partito. Claudio Borghi lo ha irriso per la sua lingua da funambolo, per la sua capacità di muoversi tra responsabilità di governo e lealtà di partito. La frase di Fedriga era questa: “Non abbiamo intenzione di proporre restrizioni, ma in caso di restrizioni generalizzate, i vaccinati devono essere più liberi”.

 

Dove Borghi vede l’oscurità lessicale altri vedono la sapienza di Martinazzoli, l’ambiguità felice. Scelto all’unanimità dai suoi colleghi, chiamato a presiedere la Conferenza Stato-Regione, ha preso il posto di Stefano Bonaccini, il presidente dell’Emilia-Romagna con cui c’è un rapporto privilegiato. A destra ci hanno provato in molti. Riuscito nessuno. Neppure Zaia che è il “doge”. Per evitare nuove chiusure, per tutelare i vaccinati della sua regione, ha formulato la proposta ragionevole: un super green pass, un trattamento differenziato per vaccinati e non vaccinati: “Se si avvicina la zona arancione bisognerebbe entrare in bar, teatri e ristoranti con un super green pass”. [ecco come funzionerà il super green pass]

Da dove viene? In famiglia, il padre lo chiamava “briciola” ma anche “nano” la scorciatoia sorridente di Massimiliano. A Trieste gli amici “Massi”. A Roma i parlamentari “Max”. E’ nato in Veneto, a Verona, all’ospedale di Borgo Trento. Il nome Massimiliano è stato scelto dai genitori per ricordare la fuga concepimento al Castello di Miramare. Massimiliano come il principe d’Austria e l’imperatore del Messico. Anche a Fedriga piacerebbe vivere ai tropici. Ha vissuto i primi anni in contrada Ledro, sempre a Verona. La prima casa al quartiere Saval, via Angelo Emo. Ha un fratello più grande di nome Marco che lavora ad Accenture. Il padre era bancario. E’ scomparso un anno fa. Si chiamava Maurizio. Lo accompagnava ogni lunedì, ed era già parlamentare, all’aeroporto di Trieste: “Buona settimana, briciola”. Ha diretto la filiale veronese della Banca Cattolica del Veneto prima, la Friulandria triestina dopo. E’ stato il primo a dare fiducia all’imprenditore Dipiazza, il quattro volte sindaco di Trieste, il sovrano dei supermercati (che ha venduto). “Il primo prestito mi è stato garantito dal suo babbo. In ufficio conservo la sua foto”.

 

Ha lasciato il lavoro con la malinconia del direttore che non accetta il mondo che cambia e che cambia male: “Una banca deve provare a fidarsi. Non voglio firmare protesti, ma prestiti”. La madre si chiama invece Claudia. Sul profilo social ha pubblicato la sua fotografia da immunizzata: “Si è vaccinata con Astrazeneca”. Erano i mesi in cui si aveva paura di Astrazeneca.

I nonni materni si chiamavano Albino Benedetti e Nella Ledri, crocerossina in Albania, e poi assistente di un medico. Socialista lui e democristiana lei. Il nonno Albino era uno dei tanti nonni Italia, il nonno alla Guareschi, quello che pizzicava la moglie ma che in cabina elettorale si fermava: “Stai attenta che voto comunista”. Ha sempre votato socialista. L’altro nonno era Giacomo Fedriga, bresciano, militare dell’esercito, la moglie Ada Billo, insegnante di scuola materna. A Trieste, Fedriga, si è trasferito quando aveva pochi anni. Ha abitato in via Milano.

 

E’ cresciuto lungo viale XX settembre, piazza Goldoni. Interista fino al 26 aprile del 1998 e si racconta “fino al minuto del rigore negato a Ronaldo dall’arbitro Ceccarini”. Ha praticato karate, nuoto, tennis. Ha portato i capelli lunghi. E’ magro come tutta l’umanità ritratta dal pittore viennese Egon Schiele.

Ha frequentato il liceo scientifico Galileo Galilei di Trieste. Il primo libro che ha conservato è “Il piccolo Principe”. Il primo concerto quello di Vasco Rossi a Lignano. Oggi ascolta i Pinguini Tattici Nucleari. A scuola, a quattordici anni, si è inventato una lista conservatrice. Lo chiamano infatti il “mite leghista”, “il biancoverde”. Rappresentante d’istituto per tre volte di seguito (l’ultimo anno è stato eletto con il 75 per cento dei voti). Si è iscritto, e aveva quindici anni, alla Lega, grazie a uno zio di un compagno di scuola: “Ti va di venire a vedere?”. Anche per la Lega, che era il partito dell’inedito, la richiesta è apparsa anomala. La prima tessera gli è stata rilasciata “previa autorizzazione dei genitori”.

A diciotto anni ha ottenuto l’incarico di coordinatore dei giovani del movimento. L’incontro con Salvini è avvenuto a quel tempo. In parlamento sedevano uno nella fila di sopra e l’altro nella fila di sotto. Vicini. E’ diventato segretario provinciale, ed è giusto ricordarlo, quando la Lega era un partito “dell’1,2 per cento”. Fedriga non ha scalato il partito. In Friuli-Venezia Giulia, Fedriga lo ha (ri)costruito.

 

L’unico protagonista rimasto, della vecchia epopea leghista, è Pietro Fontanini, oggi sindaco di Udine e primo leghista in assoluto a essere eletto presidente di regione nel 1993. Il segretario della Lega Nord di Trieste, Fabrizio Belloni, è invece deceduto nel 2017. Avrebbe voluto Fedriga sindaco. Un’altra, Alessandra Guerra, una formidabile scoperta di Bossi, ha lasciato il partito. Oggi si occupa d’altro. La donna che ha scommesso per prima sulla “briciola” è stata in realtà Manuela Dal Lago, commissaria della Lega in regione. Nel 2008 lo ha candidato lei. I voti li ha portati lui. In precedenza, Fedriga ha seduto nel Cda di Hera, nel consiglio di amministrazione di Erdisu, l’ente regionale per il diritto allo studio. Si è candidato sindaco di Trieste nel 2005 arrivando terzo dietro a Dipiazza e a Ettore Rosato.

 

Su Fedriga non si può dire che la Lega abbia puntato (e ci ha puntato). E’ lui che ha puntato sul futuro della Lega quando la Lega aveva esaurito il suo futuro. Alla Camera è entrato, la prima volta, per pochi voti e lo scoprì in diretta televisiva, ospite del Tgr regionale. Per alcuni mesi è stato anche consigliere comunale prima di dimettersi. Non lo sa quasi nessuno, ma il vero esperto della Lega in materia di lavoro, di pensioni, il solo che ha avuto rapporti di studio con i sindacati (di sinistra) è stato Fedriga. Nel 2015, la sua partecipazione alla festa della Fiom, ha fatto litigare il segretario della Fiom di Bergamo, Mirco Rota, e quello della Cgil Bergamo, Luigi Bresciani. Per la Cgil era “disgustoso” invitare un esponente della Lega, per la Fiom “un occasione di confronto”.

 

E’ stato il primo a destra ad aprire ai metalmeccanici di sinistra “perché noi leghisti siamo i soli a difendere le loro posizioni”. L’evento venne annullato. I musicisti della band Wu Ming si rifiutarono infatti di suonare. Anche in quella occasione il pretesto per fare saltare l’evento, per boicottare la partecipazione, è stato l’antifascismo, la “simpatia della Lega per l’estrema destra, la vicinanza alla Le Pen”.

Gli hanno chiesto di dichiararsi antifascista, di esibire la patente partigiana, di dissociarsi dal folle Luca Traini e la risposta si è rivelata più intelligente della domanda: “Io non chiederei mai a Debora Serracchiani di dissociarsi dall’immigrato che ha fatto a pezzi Pamela”. Secondo le classifiche della produttività, le scale Openpolis, per anni è stato il secondo deputato più produttivo della Camera, dietro a Donatella Ferranti del Pd. Per ottenere la riconferma da parlamentare si era inventato uno spettacolo teatrale che ha portato in giro come faceva Vittorio Gassman con la sua compagna di Teatro Popolare itinerante. Lo aveva chiamato “L’esame”. Saliva sul palco dei teatri di provincia e proiettava filmati per raccontare il suo lavoro da deputato. Alla fine si sottoponeva alle domande. La prima tappa a Spilimbergo.

 

E’ stato nominato capogruppo nel 2014 su volere di Salvini: “Il capogruppo deve essere lui. E basta”. Ha preso il posto di Giorgetti e raccontano che quella sostituzione venne accettata da Giorgetti ma solo perché si trattava di Fedriga. Ha conosciuto tutta la ruvidità di Bossi, il Bossi più autentico e severo. Il primo giorno della legislatura riuniva i parlamentari e li “addomesticava” urlando: “Qui non si fanno feste, si va a letto presto. Altrimenti vi prendo calci nel sedere”. Il pomeriggio del luglio 2015, quando Bossi cadde in parlamento e si fratturò radio e ulna, il primo a scorrerlo è stato Fedriga.

A Roma ha abitato dietro Montecitorio. A pranzo da “Maxela” a via delle Coppelle, ma anche da “Coso” di via in Lucina e all’Osteria della Vite. Perché Fedriga ha successo? Perché è il meno torvo dei leghisti. Il più romano dei settentrionali. Il più risolto dei provinciali. Il meno ambizioso che può ambire. Ha superato la sua fase da leghista radicale. Da capogruppo è stato espulso per quindici giorni, una enormità di punizione, dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, che è stata la sua arcinemica, la presidente (si difendeva Fedriga) “che dovrebbe ripassare la Costituzione. Non è lei il censore dell’Aula”. E’ diventato negli anni un maestro del filibustering, un Gianfranco Spadaccia della Lega, tanto da essere emulato dai primi deputati del M5s.

 

Racconta Rosato, vicepresidente della Camera dei Deputati, triestino pure lui, che “la Lega di Fedriga è stata la Lega d’aula più organizzata, un gruppo testuggine. Il M5s andava a rimorchio di Fedriga”.

 

Riccardo Illy che è il gentiluomo del caffè, l’ex presidente di regione del Pd, sindaco, deputato, una magnifica riserva del Pd che il Pd non è riuscito purtroppo a conservare, riconosce oggi che “siamo di fronte a qualcosa di maturo. La sua gestione della pandemia è stata tempestiva. Va detto”.

C’è stato un Fedriga di lotta che ha permesso l’esplosione del Fedriga di governo. C’è stato un Fedriga infiammato che ha preceduto il Fedriga “quanto è bravo”, lo studente che ha completato il suo rito di formazione. Da deputato ha firmato il ddl 1441 quater, insieme a Davide Caparini, per contrastare la disparità di punteggio fra laureati meridionali e laureati settentrionali, quella disparità che incideva nei concorsi pubblici. Ha chiesto pure lui di eliminare il patto di stabilità e dichiarato che “dall’Europa del rigore si esce”. Ancora. Firmatario della proposta di legge per un’aliquota al 15 per cento e per una sanatoria che estinguesse sessanta miliardi di crediti inesigibili. Sullo ius soli era dell’opinione che “Pd, M5s, avessero svenduto il paese”. Si è anche opposto alla legge sul testamento biologico “perché delega a un giudice una decisione delicata. Non è altro che una norma ideologica”.

Ha interpretato il suo ruolo di capogruppo della prima fase Salvini. Tra le battaglie: la presunzione assoluta della legittima difesa. La risposta a Matteo Renzi, quando Renzi era l’uomo forte, tanto forte da potersi permettere di dire tutto, di scagliarsi violentemente contro la Lega dai conti sequestrati: “Renzi che ci attacca è un pagliaccio. Noi chiederemo aiuto ai volontari”. Si è pure presentato, insieme a Gianmarco Centinaio, di fronte al palazzo della Consulta, con la Costituzione in mano e la penna nell’altra: “Firma che tu per abrogare la legge Fornero”.

 

Come direbbe Rimbaud, oggi, quell’io è un altro. Ha dichiarato che “con il tempo ho imparato che gridare forte non serve a nulla. Meglio cercare sempre un accordo. La politica è un lavoro che si impara”. E’ riuscito così a oltrepassare, osservando da Trieste, la fine del governo Conte I, quell’episodio che resta, ancora, il vero grande trauma di una comunità, di un capo. Quando Salvini ha deciso di uscire dal governo si è schierato con Salvini e quando il secondo governo Conte ha impugnato una sua ordinanza regionale, in materia di immigrazione, ha risposto: “Sono felice di dare fastidio a questi traditori”.

In un solo caso ha davvero sorpreso tutti, e dicono ora, a distanza di tempo, che avesse ragione lui, perché “ha illuminato qualcosa di cui l’Italia neppure era a conoscenza”. Quando l’Italia mandava i giornalisti a Lampedusa e Pozzallo, a documentare gli sbarchi, da presidente appena eletto, Fedriga aprì alla possibilità di barriere lungo il confine con la Slovenia per fermare l’immigrazione irregolare. Passò l’idea che volesse “un muro” come quello di Donald Trump con il Messico.

 

Dopo anni, in un’antologica conversazione con Stefano Lorenzetto, su L’Arena, quel giornale che è il presidio dell’italiano come lingua, il quotidiano che è stato la casa di Cesare Marchi, Fedriga ha spiegato che quanto aveva proposto non era “un muro” ma solo “barriere sulle tratte più a rischio, pattuglie miste, controlli con telecamere termiche e droni”. Ha tolto, e ha rivendicato, lo striscione che veniva esibito nei palazzi istituzionali di tutta la regione, lo striscione su Giulio Regeni che non era più lo striscione del dolore ma una specie di bastone agitato da una parte politica contro l’altra. Lo ha fatto con un comunicato: “Lo striscione non verrà più esposto. Malgrado non condivida la politica dei braccialetti e degli striscioni, non l’ho fatto rimuovere per più di un anno. Non voglio portare nell’agone politico la morte di un ragazzo”.

Michelangelo Agrusti, che è presidente della Confindustria Alto Adriatico, un antico democristiano, è convinto che a Trieste stia nascendo “il moderatismo progressista. E’ un moderatismo che avanza, non immobile. Un moderatismo sapienziale e mite, impregnato di cattolicesimo e che contamina le categorie sociali. Tutto quello che descrivo non è altro che il metodo Fedriga”.

 

Cattolico, praticante, ma a partire da “19 anni, dopo aver conosciuto un prete che mi spiegò la razionalità della fede”. Ammiratore del vescovo attuale, Giampaolo Crepaldi. I figli li ha chiamati Giacomo e Giovanni “che sono i nomi dei primi apostoli”. A vent’anni ha fatto il catechista. La moglie si chiama Elena Sartori ed è nata a Sesto al Reghena, in provincia di Pordenone, laureata in relazione pubbliche, referente regionale del Fai, specializzata in marketing turistico. Intervistata dal Piccolo, dopo la vittoria del marito, si è tanto intimidita: “First lady, io? Perdonatemi, ma questo titolo mi imbarazza”. Si sono incontrati in mensa aziendale. Sono entrambi esperti di comunicazione.

 

Fedriga ha studiato Scienze della Comunicazione a Trieste. Un master in marketing e comunicazione aziendale. Ha presentato una tesi sulla comunicazione dei tre referendum: aborto, divorzio, fecondazione assistita. Ha lavorato anche all’università da studente, in portineria, ricoperto il ruolo di addetto stampa di Federica Seganti, professoressa all’università di Udine, manager, amministratrice in passato di Autostrada Pedemontana, presidente di Friulia Spa, a quel tempo candidata in regione. La sua campagna elettorale, quella del 2018, che ha preceduto la sua elezione a presidente del Friuli Venezia Giulia, è stata un’avanzata a cavallo dei trattori. Fedriga è stato chiamato a correre la corsa di un altro.

 

Quando Salvini venne a Udine per annunciare che la Lega avrebbe appoggiato Renzo Tondo di Forza Italia, trovò i militanti della Lega ad attenderlo sopra i loro trattori: “Ti chiediamo di candidare lui”.

 

Giorgetti aveva perfino rilasciato un’intervista dove spiegava che la Lega era tanto responsabile nei confronti degli alleati al punto che “stiamo sacrificando per Tondo l’amore per la sua terra di uno dei nostri uomini migliori, Fedriga”. Candidarlo è stata la buona imposizione di Salvini, insuperabile nell’annusare i sentimenti e i malcontenti. Insieme a Berlusconi venne stabilito che la Lega avrebbe lasciato la presidenza del Senato e ottenuto per Fedriga la candidatura. Non era ancora nato il governo Conte.

 

Ex fumatore importante di Marlboro rosse, indossa cappotti color cammello, cardigan di colore blu, pantaloni accorciati e stretti a partire dal ginocchio, camicia sempre dentro la cintura, collezionista delle cravatte Marinella.

 

Fedriga si veste come pensa. Il suo portavoce, che è il suo portagarbo, si chiama Edoardo Petiziol. E’ il suo ussaro, l’uomo che legge, che riflette e consiglia. E’ figlio di Paolo Petiziol, ex presidente di Finest. Della comunicazione regionale si occupa Demetrio Filippo Damiani, figlio di Roberto, docente universitario e vicesindaco con Illy. La figura snodo della sua segreteria è Serena Tonel che è anche vicesindaco di Trieste.

 

I dragoni della “cavalleria Fedriga” sono gli amici antichi Pierpaolo Roberti, assessore regionale alle autonomie locali, testimone di nozze. L’altra è Alessia Rosolen, assessore all’Istruzione. Distaccati, a Roma, c’è Vannia Gava, sottosegretario al ministero della Transizione ecologica, mentre a Bruxelles, l’europarlamentare Marco Dreosto che è anche segretario regionale della Lega. Ha preso il posto di Fedriga.

 

Perché in Friuli Venezia Giulia il centrodestra ha vinto e bene? Perché è riuscito a presentare una giunta di campioni, il meglio dei loro partiti. Il vicepresidente è un altro che era destinato a fare il presidente se non l’avesse fatto Fedriga o Tondo. E’ Riccardo Ricciardi di Forza Italia e ha la delega alla Sanità. Al porto di Trieste è stato confermato Zeno D’Agostino, l’antagonista di Stefano Puzzer, il portuale che i no vax hanno elevato a generale con la divisa da pompiere. Su D’Agostino, che a Trieste viene ritenuto un uomo vicino al Pd, un futuro protagonista, Fedriga ha detto: “Lo abbiamo confermato nel suo ruolo anche noi leghisti. Sono per la meritocrazia. Valuto i manager per quello che fanno e D’Agostino è molto bravo”.

 

Al contrario di altri presidenti di regione, quelli che cercano nella grande architettura l’opera che racconti il loro passaggio nel tempo, Fedriga si è concentrato sulle strategiche, invocate da anni, dislocate in ogni provincia del Friuli Venezia Giulia. A Pordenone, il Ponte sul Meduna che si attende da trent’anni. A Udine la riqualificazione del quartiere Sant’Osvaldo. A Gorizia il mercato coperto. A Trieste è in cantiere qualcosa che ne cambierebbe l’immagine per sempre. Si vuole riqualificare il Porto Vecchio che è lo scrigno della città. Si comincerebbe dal pubblico per poi generare l’effetto trascinamento. L’obiettivo è spostare tutti gli uffici istituzionali, concentrarli in quel quartiere: non il grande grattacielo, ma favorire in questo modo una nuova promenade.

Nella città dello sdoppiamento sta insomma lievitando il pane di un nuovo modo di stare a destra. Si concilia l’inconciliabile: la destra della durezza con la destra da sartoria. E’ il giardino dove cresce la frase lunga e involuta al posto delle parole corte e selvatiche. Fedriga è il solo che riesce a passeggiare lungo la frontiera che separa i mondi Giorgetti e Salvini, Salvini e Meloni, Berlusconi e Salvini. E’ il parallelo che sta in mezzo, la zona franca della possibilità, la neutralità attiva. La briciola come dispositivo della (nuova) storia.

 

  • Carmelo Caruso
  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio