Ecco il “Salvetta”
Serve un accordo tra Letta e Salvini. Più nazione, meno fazione
Finanziaria, Quirinale, legge elettorale, attuazione del Pnrr: urge un patto tra il segretario del Pd e quello della Lega per provare a governare l’Italia da qui alle elezioni e mettere in sicurezza il paese per i prossimi sette anni
La chiave dei prossimi mesi è tutta qui ed è tutta in una crasi: l’urgenza di un “Salvetta”. Pochi giorni fa Enrico Letta, segretario del Pd, ha proposto sulla Stampa di organizzare, insieme con le altre forze politiche, un tavolo per le riforme. Giusto, bene, bravo, bis: un tavolo per le riforme non si nega a nessuno. Ma c’è un problema grande come una casa, o grande come un tavolo, che riguarda il rapporto tra i leader dei partiti, da qui ai prossimi mesi, e quel problema ha a che fare con la necessità assoluta di trovare, in questa legislatura, un baricentro politico efficiente che possa permettere alla maggioranza di governo di non arrivare impreparata a quattro appuntamenti cruciali dai quali passerà il futuro dell’Italia: legge di Bilancio (dicembre), Quirinale (tra gennaio e febbraio), legge elettorale (non programmata), attuazione del Pnrr (non si scherza). La necessità di trovare un baricentro politico è in qualche modo indipendente rispetto a quello che sarà il futuro di Mario Draghi, e comunque andrà a finire la roulette russa quirinalizia, l’anno che si aprirà metterà il futuro del governo nelle mani dei partiti più di quanto non lo sia stato in questi mesi: la campagna elettorale sarà ovviamente meno distante nel tempo, la pandemia sarà verosimilmente più vicina a trasformarsi in endemia e la stagione della insindacabilità delle scelte di governo sarà presumibilmente sostituita da una stagione di quotidiana sindacabilità.
Dunque non c’è scelta e non c’è alternativa: serve con urgenza un patto all’insegna del Salvetta. Cos’è il Salvetta? Semplice: Matteo Salvini più Enrico Letta. La questione è questa e vale la pena dedicarle due minuti di attenzione. Fino a quando il capo del centrosinistra, ovvero Enrico Letta, e il più importante azionista del centrodestra, ovvero Matteo Salvini, che di fatto insieme con Silvio Berlusconi guida una federazione formata da Forza Italia e dalla Lega, non decideranno di fare quello che in passato hanno provato a fare con fortune alterne diversi ex segretari dei partiti progressisti con il principale esponente del partito a loro avverso, che sistematicamente coincideva con la figura di Silvio Berlusconi, e fino a quando dunque Enrico Letta e Matteo Salvini non decideranno di trattare e dialogare tra pari, per l’Italia, nella stagione in cui i partiti torneranno a dettare legge, non sarà facile farsi trovare preparata nelle grandi partite che contano.
La prima partita è quella della delega fiscale ed è una partita che purtroppo sembra persa in partenza considerando le quattro posizioni difficilmente conciliabili di Enrico Letta (“Occorre ridurre le tasse sul lavoro per aiutare la domanda interna”), di Matteo Salvini (“Metterei tutti gli 8 miliardi su partite Iva, commercianti e professionisti”), di Giorgia Meloni (“Gli 8 miliardi vanno concentrati su una cosa sola, bisogna metterli sul cuneo fiscale”) e di Giuseppe Conte (“Dobbiamo abolire l’Irap e creare un’imposta unica per le imprese”). Quattro linee, nessuna intesa e palla come sempre a Draghi che difficilmente in questa partita riuscirà a raggiungere qualcosa in più di una mediazione (il governo ha stanziato un budget per la riforma fiscale delegando al Parlamento una scrittura della legge che il Parlamento sembra avere intenzione di scrivere seguendo la logica poco visionaria dell’“un pezzo a me e un pezzo a te”). Il rischio di perdere un’occasione è forte (la linea più saggia sulla delega fiscale, incredibile a dirsi, è quella di Giorgia Meloni) ma il rischio di perdere un’occasione è altrettanto forte se Salvini e Letta non impareranno a trattare da pari su qualcosa di più importante di una tornata di nomine in Rai.
Due punti su tutti: Quirinale e legge elettorale. Sul secondo punto la strada forse è quasi impossibile perché per il Pd non sarà facile portare la Lega sulla strada del proporzionale (anche se una chiave ci sarebbe: spiegare alla Lega perché il proporzionale potrebbe essere l’unico modo per evitare di trasformare automaticamente l’attuale legge elettorale in un trasferimento di pieni poteri della coalizione a Giorgia Meloni). Sul primo punto invece la strada in teoria dovrebbe essere meno difficile e Letta e Salvini avrebbero un numero infinito di ragioni per diventare, al più presto, i pivot dell’operazione Draghi, trasformandosi nei suoi corazzieri sulla strada del Quirinale. Ragione numero uno, ragione nobile che varrebbe per entrambi: mettere l’Italia in sicurezza provando ad affidarsi al metodo Draghi non per i prossimi sette mesi ma per i prossimi sette anni. Ragione numero due, altrettanto nobile: scaricare su Draghi la responsabilità del monitoraggio del Pnrr e trasformare così il prossimo settennato quirinalizio non in una potenziale safety car della politica ma in una potenziale àncora di salvezza per evitare di perdere di vista, per i prossimi sei anni, gli obiettivi del Pnrr. Ragione numero tre, più pragmatica e forse meno nobile: trasformare l’eventuale trasferimento di Draghi al Quirinale in un’occasione per ridare centralità alla politica, dando ai partiti la giusta spinta per competere tra di loro senza paura di essere commissariati da un papa straniero al prossimo giro a Palazzo Chigi.
La ragione numero quattro è una ragione politica che merita di essere divisa in due. Da una parte, avere un Draghi al Quirinale, per Salvini, significherebbe riuscire ad avere finalmente un capo dello stato votato anche dal centrodestra in modo compatto, cosa mai successa nella storia d’Italia, e significherebbe, per il leader della Lega, superare in modo formale la stagione dell’impresentabilità.
Dall’altra parte, per Letta, avere un Draghi al Quirinale non solo risolverebbe molti problemi nel Pd (il Pd ha più candidati al Quirinale che parlamentari), non solo darebbe al segretario del Pd una qualche possibilità in più per poter ambire un giorno di nuovo a Palazzo Chigi (cosa che con Draghi non al Quirinale potrebbe essere anche più difficile), ma permetterebbe al leader del Partito democratico di giocare un ruolo più simile a quello di un leader della nazione che a quello di capo di una singola fazione.
Per fare questo, per stringere un patto con Salvini, che è l’azionista di maggioranza del centrodestra di governo, Letta dovrebbe riconoscere che il centrodestra con cui vale la pena trattare e dialogare è più quello che si trova all’interno del perimetro del governo (la Lega) che quello che si trova all’esterno di quel perimetro (Fratelli d’Italia) e su questo punto in verità la posizione del leader del Partito democratico non appare chiara: il segretario da mesi sembra oscillare fra la tentazione di usare il dialogo con Forza Italia per dividere la destra di governo e la tentazione di usare il dialogo con Giorgia Meloni per avere un alleato in più nella lotta contro Salvini.
Tattiche legittime ma che tendono a perdere di vista quello che è il vero e unico viatico di questa legislatura: un patto tra Letta e Salvini per provare a governare l’Italia da qui alle prossime elezioni e mettere in sicurezza il paese per i prossimi sette anni. Lo chiede il buon senso, naturalmente, ma lo chiedono anche i numeri della corsa quirinalizia, che ci ricordano in modo spietato come l’unico capo dello stato possibile, per il dopo Mattarella, è quello che potrà nascere su un asse trasversale e non su quello di una semplice coalizione. Più nazione e meno fazione: il futuro dell’Italia passa anche da qui. Viva il Salvetta.