il retroscena
La geopolitica di Tim, o del perché Draghi potrebbe non usare il golden power
L'attivismo dell'ambasciatore Usa, le cure di Giorgetti e Pd per Kkr: "Non possiamo trattarli come i cinesi". Il racconto di quando in Cdm si rischiò la baruffa, sul caso della rete. Palazzo Chigi esclude la vendita dell'infrastruttura, ma il ruolo di Cdp andrà chiarito, insieme agli investimenti del fondo americano
L’ultima volta che a Palazzo Chigi se ne parlò, di Kkr e Tim, a gennaio, fu l’allora ambasciatore Usa a risolvere la questione. Ché insomma va bene la difesa degli interessi strategici, ma trattare un fondo americano alla stregua dei cinesi di Huawei, confondere gli amici coi nemici, non era il caso. Il fatto poi che Lewis Eisenberg fosse stato senior advisor proprio di Kkr, forse non era solo una coincidenza. Ma neppure oggi il ricorso al golden power sembra concreto. Non nella sua forma più drastica, almeno: quella che di fatto si tradurrebbe in veto del governo che bloccherebbe la manovra di Kkr su Tim e ritenendola lesiva degli interessi di sicurezza nazionale. Ecco, pur nell’incertezza dovuta a una trattativa ancora tutta da definire, ciò che appare chiaro è la disposizione del Mef, del Mise e di Palazzo Chigi a non considerare quella di Kkr come una mossa ostile, un’azione predatoria. E del resto, il colosso finanziario americano è di quelli che negli anni hanno saputo guadagnarsi una reputazione di controparte affidabile, di chi coi governi occidentali parla sempre con garbo, utilizzando una diplomazia informale, attivata anche nel caso di Tim con le istituzioni italiane nei giorni scorsi, che non ha nulla a che vedere con la razzia. Ci si potrà sedere e confrontarsi. Fate il vostro gioco. Purché, nel gioco, resti chiaro un punto: che la rete, cioè l’infrastruttura che pure sembra l’oggetto reale del desiderio di Kkr, non potrà uscire dal preminente controllo pubblico.
Per questo fine, però, non servirà, pare, sventolare la minaccia del golden power. Non direttamente, almeno. Anche per questioni di opportunità geopolitica. E del resto a metà gennaio scorso, col Conte II già periclitante, in Cdm proprio per questo si rischiò la zuffa. Perché Riccardo Fraccaro, allora sottosegretario alla Presidenza, propose l’applicazione di un golden power molto severo su Kkr, entrato col 37,5 per cento in Fibercop, l’azienda di Telecom che controlla la rete secondaria, quella che porta i cavi dalle strade dentro le abitazioni. Il più risoluto ad opporsi, proprio in nome dei doveri che l’alleanza con gli Usa impone, fu il ministro della Difesa del Pd, Lorenzo Guerini, il quale evidentemente sapeva che all’ombra di questo asse atlantico si consumava poi una partita tutta italiana, che vedeva i vertici del Tesoro caldeggiare l’ascesa di Kkr in una duplice funzione: assecondare la necessità dell’ad Luigi Gubitosi di fare cassa, e rendere più percorribile la strada che avrebbe dovuto portare alla rete unica. Si finì con un compromesso un po’ così, con un golden power assai ristretto e prescrizioni blande (anche se non così blande come avrebbe voluto il Mef di Roberto Gualtieri).
E però ora che Kkr sembra puntare al colpo grosso passando non dall’entrata di servizio di Fibercop, ma con tutti gli onori e il galateo del caso, la sostanza del dibattito resta la stessa. “Gli americani sono amici, e agli amici non si negano cortesie”, dice, nel Pd, chi segue il dossier tra il Nazareno e il Mef. Ed è infatti alla luce di questa stessa logica geopolitica che tra i dem si giudicano come un’imprudenza di chi non ha ancora rinnegato fino in fondo le simpatie sino-russe certe prese di posizione grilline di chi, come Angelo Tofalo, chiede un’immediata contromossa di Cdp, affinché “salga alla maggioranza di Tim”. Ma non è l’unico cortocircuito politico della giornata, se è vero che anche Matteo Salvini, più o meno consapevolmente, si ritrova a sostenere le stesse posizioni di Vincent Bolloré, l’arcinemico di Gallia, nel chiedere le dimissioni di Gubitosi. Lasciando peraltro intravedere una nuova possibile linea di faglia nella tettonica leghista: perché, sempre in nome della geopolitica romana, Giancarlo Giorgetti, dalla tolda del Mise, non sembra affatto pregiudizialmente ostile all’operazione di Kkr, proprio in virtù della sua ansia di accreditarsi con gli amici di Washington. Né, sul fronte europeo, l’eventualità che il fondo americano dia un dispiacere a Vivendi andrebbe per forza vista come una sgrammaticatura diplomatica alla vigilia del Trattato del Quirinale e della trasferta italiana di Emmanuel Macron, se è vero che nel magnate bretone, sostenitore della campagna di Éric Zemmour, il capo dell’Eliseo ha sempre avuto un dichiarato rivale.
Senza contare, poi, che la possibile rimessa in discussione della rete unica “all’italiana” potrebbe riscuotere la simpatia di Bruxelles. Perché proprio a metà novembre, pur avallando la salita di Cdp dal 50 al 60 per cento di Open Fiber, la Commissione europea aveva lasciato trapelare tutta la sua perplessità sul progetto che proprio attraverso quella via si arrivasse all’unificazione dell’infrastruttura. E insomma quando il costituendo comitato interministeriale fornirà le informazioni al dipartimento per il coordinamento amministrativo di Palazzo Chigi le informazioni preliminari, da incrociare poi con le analisi riservate dei servizi segreti, si potrebbe convenire che la mossa di Kkr, per modalità e tempismo, ha colto nel segno. Purché si rispettino gli impegni su investimenti (necessari anche in ottica Pnrr) e i livelli occupazionali, e purché non si comprometta la natura pubblica dell’infrastruttura. Ma su questo potrebbe non essere necessaria la minaccia del golden power. Tra “amici”, ci si può intendere più facilmente.