Il Foglio weekend
Da Prodi a Berlusconi, da Renzi a De Mita. Quelli che tornano sempre
Regola numero uno della politica italiana: chi è stato a Palazzo Chigi prima o poi vorrà riprendersi Palazzo Chigi
La prima regola della politica italiana, essenziale per orientarsi nei suoi complicati meccanismi, per intenderne manovre e messaggi cifrati, insidie e illusioni, recita semplicemente: chi è stato a Palazzo Chigi vuole tornare a Palazzo Chigi. Capire quale sia la motivazione nascosta dietro le mosse di un ex presidente del Consiglio non richiede altri sforzi.
La seconda regola dice: anche chi non c’è stato.
C’è un solo posto dove tanto chi è stato a Palazzo Chigi quanto chi c’è andato solamente vicino desidera trasferirsi ancora più ardentemente, ed è il Quirinale. Ma quello è un incarico che, salvo rare eccezioni, si libera una volta ogni sette anni. Mentre Palazzo Chigi, in pratica, è come se fosse sempre disponibile, costantemente all’incanto. E questo è anche il problema. Nonché una delle principali differenze tra il sistema politico italiano e quello della maggior parte degli altri paesi occidentali. In Spagna, per dire, gli ex capi del governo ancora in circolazione sono quattro: Felipe González, José María Aznar, José Luis Rodríguez Zapatero e Mariano Rajoy. In Germania, appena due: Angela Merkel e Gerhard Schröder. In Italia sono dodici. Talmente tanti che a farne l’elenco ci si annoia ancora prima di arrivare in fondo (sia detto tra parentesi, per quelli ancora convinti che bisognava abolire il proporzionale per avere finalmente governi stabili: Spagna e Germania hanno entrambi sistemi elettorali proporzionali). Se poi, tenendo conto dell’importanza della seconda legge (ci vuole tornare anche chi non c’è mai stato), volessimo aggiungere ai suddetti dodici il numero di coloro che a Palazzo Chigi si sono candidati (lo so che la Costituzione non lo prevede, ma dovete dirlo a loro, non a me), anche limitandosi a quelli che avevano effettivamente qualche chance di farcela, l’elenco prenderebbe in un attimo proporzioni telefoniche.
In pratica, non ha nessuna importanza che tu abbia guidato un governo di destra o di sinistra, progressista o conservatore, che tu ti chiami Romano Prodi o Silvio Berlusconi, Enrico Letta o Mario Monti, Giuseppe Conte o Giuseppe Conte: chi è stato a Palazzo Chigi vuole tornare a Palazzo Chigi. E chi a Palazzo Chigi ha già fatto andata e ritorno, semmai, vuole andare al Quirinale. La conseguenza di questo meccanismo, figlio dell’instabilità dei governi e dello scarso ricambio generazionale nelle carriere pubbliche, è un gioco in cui il numero dei partecipanti cresce di continuo, a dismisura, fino al punto da rendere arduo seguire la partita, perché il campo trabocca di giocatori, ciascuno con i propri schemi, intenzioni, alleati.
Nel 2016, a confrontarsi nella campagna sul referendum che avrebbe dovuto “tagliare le poltrone” dei politici c’erano Matteo Renzi, il giovane rottamatore che aveva promesso di lasciare la politica in caso di sconfitta, e Ciriaco De Mita, il leader dei giovani democristiani che negli anni sessanta volevano rottamare Amintore Fanfani e Aldo Moro. Il referendum è andato come è andato, e loro sono ancora lì entrambi, sempre lì, lì nel mezzo. Uno ormai da tempo emarginato dalla politica nazionale, ma ancora tenacemente insediato del suo fortino, circondato dai cimeli di tanti anni di carriera nelle istituzioni e dai pochi scudieri rimastigli fedeli, l’altro ancora in piena attività come sindaco di Nusco. C’è in tutto questo, intendiamoci, anche qualcosa di rassicurante. Qualcosa che dà alla lotta per il potere, generalmente violentissima e senza regole, un tratto quasi caritatevole, sicuramente molto umano e molto italiano, starei per dire molto cattolico: non c’è peccato che non possa essere perdonato, o perlomeno dimenticato. Non c’è fesseria fatta, detta o tentata che possa gravare sulla tua carriera per un tempo indefinito. Alla lunga, si può fare tutto. Chi la dura la vince.
Il rovescio della medaglia è che nessuna pagina si chiude mai veramente, nessun risultato appare mai definitivo, nessuna vittoria e nessuna sconfitta sono realmente decisive, perché c’è sempre la rivincita. Come in quei giochi di bambini in cui lo sconfitto invocava sempre la finalissima, e poi la bella, e poi ancora la bellissima. In verità, tutte le partite, o almeno tutte quelle che contano, si giocano a oltranza, fino allo sfinimento dei contendenti. Il rovescio della medaglia, in breve, è che non ci liberiamo mai di niente e di nessuno. Il grande ritorno di questo o quello è probabilmente il titolo più utilizzato di tutto il giornalismo italiano (che pure non è avaro di frasi fatte ed espressioni stereotipate). La figura dell’esiliato in patria, o anche all’estero, insomma del leader che abbandona sdegnosamente l’agone politico, e con esso il proprio partito e magari anche il proprio paese, esiste ed è anzi molto diffusa, naturalmente. Ma non ce n’è uno che al momento della partenza non abbia già in tasca il biglietto di ritorno. E che non passi buona parte del tempo tra l’una e l’altro a pianificare e organizzare la sua rentrée.
Tornano tutti, e se non sono già tornati, stanno certamente per tornare. Torna Alessandro Di Battista, che in aprile, a domanda sul punto, rispondeva con un indimenticabile: “Non lo so, io fino a fine settembre porto avanti le mie cose personali, sono anche battaglie politiche che ho scelto anche rinunciando a poltrone importanti. Il futuro vedremo. A fine settembre farò le mie valutazioni e deciderò”. Indimenticabile soprattutto per lo scrupolo con cui si premurava di sottolineare, in aprile, “fine settembre”, perché a nessun segugio da quattro soldi saltasse in testa di interrompere anzitempo le sue vacanze e il suo meritato riposo. Siamo ormai a fine novembre, Dibba non si può dire che si sia ammazzato di lavoro, ma insomma una sorta di tournée perlomeno l’ha cominciata, ha rilasciato delle interviste piuttosto determinate, e così i retroscena hanno tornato a riempirsi, proprio come ai bei tempi, di analisi e controanalisi su strategie e conseguenze del suo grande ritorno (si dice che potrebbe addirittura mettere su un altro partito con Virginia Raggi, e chi lo sa: magari a fine legislatura).
E se il 4 dicembre 2016 De Mita trionfava idealmente su Renzi, cinque anni dopo ecco che il suo non meno intramontabile delfino, Clemente Mastella, può annunciare addirittura una “Assemblea nazionale costituente” – fissata giusto giusto il 4 dicembre 2021 – del movimento “noi Di Centro”. Così maiuscole e minuscole nel manifesto dell’iniziativa, in cui campeggia ovviamente il faccione sorridente dell’eterno sindaco di Benevento, il quale in tal modo potrà aggiungere una nuova sigla al suo già denso curriculum. Alla voce partito politico, la sua pagina wikipedia riporta infatti questa notevole sequenza: “Noi Campani (dal 2020). In precedenza: Dc (1976-1994), Ccd (1994-1998), Cdr (1998), Udr (1998-1999), Udeur (1999-2013), Fi (2013-2015; 2018-2020), PpS (2015-2017), Udeur 2.0 (2017-2018)”.
È tornato, mille volte, Romano Prodi, il più bravo di tutti – in questo specifico tipo di gioco, s’intende – capace di lasciare la politica, la coalizione e il partito di appartenenza ogni volta come se fosse l’ultima, per poi tornare sempre alla carica, ora come candidato a presidente della Commissione europea, ora come (ri)candidato alla presidenza del Consiglio, ora (e sempre) come autorevolissima carta di riserva per la corsa al Quirinale (da quando è cominciato il semestre bianco, per dire, è già al secondo libro, con relativo giro di interviste a giornali, televisioni, radio, riviste e siti internet). In molti, anche tra i suoi rivali, hanno tentato di imitarlo – ricordate il tono con cui, per anni, Massimo D’Alema ripeteva di occuparsi solo di politica estera? – ma nessuno ha potuto eguagliarlo. E se è vero che i governi del Professore sono sempre durati poco, e che la sua ultima candidatura al Quirinale è finita come tutti ricordano (con i famosi centouno), è pur vero che al dunque è sempre lì. I centouno potranno essere stati anche centoventi o centotrenta, come precisa sempre lui, dimostrando di tenerne il conto con risoluta precisione, ma è un fatto che, seppure riuscirono talvolta a batterlo, i rivali non hanno mai potuto godersi a lungo i frutti della vittoria: le invisibili armate del Professore, cacciate dalle correnti rivali, tornarono sempre da ogni parte. Loro, invece, non appreser ben quell’arte.
A meno di clamorose sorprese nella corsa per il Quirinale, si direbbe che almeno finora il più bravo, nell’arte di scomparire e ricomparire al momento giusto, dopo Romano Prodi, si sia dimostrato Enrico Letta, che del resto può essere considerato per molti aspetti un suo allievo, e che ha seguito un percorso molto simile anche nella capacità di costruirsi un profilo a metà tra il tecnico e il politico, rapporti internazionali in proprio, e una sua rete di relazioni esterna ai partiti. Prima di lui, un talento notevolissimo lo aveva dimostrato anche Walter Veltroni, incrinato forse soltanto da quella scivolata, la classica esagerazione in cui cadono a volte i grandi talenti, quando cominciò a dire che si sarebbe addirittura rifatto una vita in Africa. Peggiori in campo – in questo specifico tipo di gioco, s’intende – Renzi e D’Alema, senza dubbio. Troppo evidentemente convinti della propria insostituibile superiorità per risultare credibili quando dicono di volersi fare da parte.
Ai tempi della Democrazia cristiana Fanfani era stato soprannominato “Rieccolo” da Indro Montanelli, proprio per la sua inesauribile capacità di risorgere dopo ogni sconfitta, quando meno te lo aspettavi. E certo non era un tempo in cui le carriere dei politici durassero di meno, né i governi di più. Oggi però sarebbe difficile scegliere a chi affibbiare un simile nomignolo, forse perché lo meriterebbero quasi tutti, o magari semplicemente perché nel frattempo è l’Italia intera, non solo la politica, che sembra essersi fermata. Come un autobus bloccato nel traffico, su cui non sale e da cui non scende più nessuno. E bisogna pure ringraziare che non esploda, almeno se si è a Roma. Tutti ripetono che “i cimiteri sono pieni di uomini che si credevano indispensabili”, ma è evidente che pensano sempre agli altri, e sembra di vederli, come Aldo Fabrizi in C’eravamo tanto amati, urlare in faccia ai più giovani rivali e concorrenti: “Tanto io nun mòro, hai capito? Nun mòroooo…”
Il Movimento 5 stelle, quello che doveva mandare in Parlamento solo portavoce dei cittadini, al massimo per due mandati, con l’obiettivo di azzerare per sempre la “casta” della politica, dopo avere sposato tutte le posizioni politiche disponibili e governato con tutti, escluso solo Fratelli d’Italia (per scelta di Fratelli d’Italia, s’intende), si appresta ormai ad abolire anche l’anacronistica regola dei due mandati. E perché mai, giacché tutti ritornano e nessuno se ne va mai davvero, gli unici a scendere dalla giostra dovrebbero essere proprio loro? I cimiteri saranno anche pieni di uomini che si credevano indispensabili, ma per cambiare mestiere e per morire c’è sempre tempo. Non è il caso di affrettarsi.
E a me resterà sempre in mente, come uno di quei possibili finali alternativi destinati a non vedere mai la luce, l'ultima scena dei Tre amigos, indimenticabile parodia anni ottanta dei Magnifici sette, con il dialogo tra l’eroe che si appresta a lasciare il villaggio appena liberato dai crudeli banditi di El Guapo e la bella contadina venuta a salutarlo per l’ultima volta: “Forse un giorno tornerò”. “E perché?”.