Il commento
Il vento nuovo che soffia nell'Unione. Più Europa, quella suggerita da Draghi a Jackson Hole
Il Next Generation Eu e il metodo Draghi, dalla presidenza della Bce all'ultimo incontro con Macron, spiegati dal ministro della Pubblica amministrazione
Helmut Kohl amava dire: “Nel dubbio, per l’Europa”. L’Europa che, come sosteneva un altro grande architetto dell’Unione europea, Jean Monnet, “sarà forgiata nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per quelle crisi”. Da economista e politico impegnato prima al Parlamento europeo, per quasi dieci anni, e poi in Italia anche in ruoli di governo, ho sempre ispirato la mia attività a questi due aforismi del processo di costruzione dell’Unione. Il cuore dell’europeismo.
Ripercorrendo alcuni dei momenti più difficili che l’Ue ha vissuto negli ultimi anni, e i passaggi da una crisi all’altra, tuttavia, ci accorgiamo che le soluzioni approntate sono state di differente impatto sul progresso della nostra casa comune. A volte ci hanno fatto fare dei passi avanti; in altre occasioni, magari, ci hanno imposto dei rallentamenti. Dei momenti di stallo. Dalla crisi dei Paesi baltici del 2008 alla tragica passeggiata Merkel-Macron a Deauville del 2010, fino all’importante discorso dell’allora presidente della Bce, Mario Draghi, a Jackson Hole nel 2014, il meeting annuale dei governatori delle banche centrali. Ci ricordiamo bene quegli anni, quando le istituzioni europee bacchettavano i Paesi del Sud dell’Europa, le cicale, a colpi di zero virgola sui deficit di bilancio, mentre quelli del Nord, le formiche, accumulavano surplus di bilancia commerciale evitando di dare una spinta all’economia reale con politiche di reflazione della domanda interna.
Con quel discorso a Jackson Hole, Draghi rilanciò con forza il monito che, da presidente della Bce, aveva sempre ripetuto ai governi: non lasciate le banche centrali da sole. Chiedeva agli stati di fare la loro parte con politiche di bilancio espansive, pur nel rispetto della sostenibilità di lungo periodo delle finanze pubbliche, in modo tale da accompagnare il meccanismo di trasmissione della politica monetaria all’economia reale. In pratica, sollecitava i governi a dare la possibilità a famiglie e imprese di investire, mettendo in circolo la leva finanziaria. Quel monito fondamentale del presidente della Bce allora non ebbe riscontro e le crisi dei primi due decenni di questo millennio hanno dimostrato tutta la debolezza dell’Unione europea. Ma, e qui è il punto di svolta, se la crisi del 2008-2011 ha ottenuto risposte miopi, quella pandemica sembra totalmente diversa.
Il Next Generation Eu, di fatto, altro non è che l’attuazione di quanto sostenuto da Draghi nel 2014 a Jackson Hole. Una sorta di spinta alla reflazione, alle riforme, agli investimenti, in maniera tale che le politiche monetarie non convenzionali delle banche centrali siano accompagnate da politiche di bilancio dei singoli paesi, con risorse messe in gran parte a disposizione dall’Unione europea. Il giusto mix di politiche monetarie e di bilancio viene, dunque, realizzato non per autonoma scelta degli Stati, ma per il coraggio lungimirante, da vera statista, di Angela Merkel, che ha deciso di indebitare l’Ue. Una decisione che, indubbiamente, non è stata semplice da prendere, mentre il continente e il mondo intero erano travolti da una pandemia che saturava le terapie intensive degli ospedali e mieteva oltre un milione di vittime in Europa. Il cambio di passo avvenuto da aprile-maggio 2020 è frutto di tre eresie e di due rotture.
Prima eresia: il “temporary framework”. La Commissione europea, quasi a cuor leggero, rende compatibili gli aiuti di stato contro le sue stesse regole sulla concorrenza per salvare le economie del Continente. Quasi un “liberi tutti”. Contestualmente, attiva la “general escape clause”, ossia la sospensione del Patto di stabilità e crescita, di fatto smontando le regole con cui imponeva “i compiti a casa” e la politica di bilancio del “sangue, sudore e lacrime”. Infine, terza eresia, mette a terra proprio quello che, qualche anno prima, Draghi sollecitava: politiche di bilancio espansive di ausilio all’azione delle banche centrali.
Tutto questo è stato a sua volta possibile grazie a due “rotture” fondamentali, queste sì di valenza storica. La prima risale al 26 luglio 2012, quando Draghi, pronunciando la famosa frase “la Bce è pronta a fare tutto il necessario a preservare l’euro. E credetemi: sarà abbastanza” salva in un colpo solo l’euro e l’Europa. Lo fa andando necessariamente e consapevolmente oltre il suo mandato di presidente della Bce.
La seconda “rottura” avviene quando Merkel, nel 2020, cambia idea. Viene meno la risolutezza ribadita più volte, fino a pochi mesi prima della decisione sul Ngeu, della posizione tedesca contraria a qualsiasi forma di indebitamento dell’Ue. Si comincia a parlare di “momento Merkel” e ci si indebita per reagire alla pandemia. In poco, pochissimo, tempo viene ipotizzato, deciso e attuato lo strumento che supera lo schema con il quale si era sempre operato, permettendo all’Unione europea di indebitarsi sui mercati finanziari per raccogliere risorse da assegnare ai paesi membri sotto forma di loans e grants, e garantendo così, anche agli Stati più esposti al rischio di mercato, la tripla A del debito sottoscritto dalla Commissione europea. È una assoluta cesura con il passato. Questo nuovo approccio, fuori dai canonici schemi eccessivamente rigidi dei compromessi al ribasso europei, ha messo in evidenza il seguente paradosso: l’Europa si sta salvando solo sospendendo le sue stesse regole. Un bellissimo esempio di libertà, fantasia, democrazia.
A questo proposito, in questi mesi è in corso un dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità. Se l’intento è quello di ritoccare queste regole e i relativi parametri, che negli ultimi anni sono stati fin troppo complicati e poco rispettati – come ricorda anche Marco Buti nel suo ultimo libro “The man inside” quando parla di “piramidi invertite” e lotta contro i “contratti completi” – rischiamo di ammazzare lo “stato nascente” del Next Generation Eu, tornando al passato.
Occorre cambiare paradigma. Per farlo, bisogna lasciarsi alle spalle l’eccessiva inflazione regolamentare esemplificata magistralmente dalla politica degli “zero virgola” su deficit e debito. Iper-regolazione che origina dalla fallace credenza secondo cui i guardiani dei Trattati dell’Unione europea siano in grado di codificare tutti i fenomeni economici. Una supponenza che si focalizza sulla proliferazione di parametri quantitativi e perde di vista le buone regole. Quelle, cioè, compatibili con il funzionamento del libero mercato, basate sui princìpi anziché su numeri, cifre e soglie. Occorre ripartire da Maastricht, riprendere le idee di Guido Carli nella definizione delle regole di bilancio: nella sua visione, avrebbero dovuto basarsi sulla tendenza all’obiettivo e non sulla rigida parametrizzazione dell’obiettivo stesso. Occorre lanciare una riflessione più profonda che sfoci in una revisione dei Trattati e delle relative regole di politica economica.
Di nuovo Monnet: l’essenza delle esperienze che abbiamo vissuto ci conferma che l’Europa si forgia attraverso le crisi e attraverso le risposte alle crisi. E ancora Kohl: nel dubbio, sempre dalla parte dell’Europa. Per concludere: speriamo che non si torni banalmente al passato. Forti di questo potenziale stato nascente, di questo vento nuovo che soffia nell’Unione, possiamo osare e cambiare paradigma. Più Europa. Quella suggerita da Draghi a Jackson Hole.
Renato Brunetta
ministro per la Pubblica amministrazione