l'intervista integrale al foglio
Letta: Non si può votare ora. Draghi resti a Palazzo Chigi
Elezioni: “Non basta qualche punto in più per il Pd, bisogna battere il 40 per cento di Lega e FdI”. Quirinale: “Serve la più ampia maggioranza”. Tim: “Bolloré è con Zemmour. L’Italia che fa?”. Il segretario del Partito democratico alla Festa del Foglio
Prima la botanica, poi il governo, quindi gli investimenti, infine il Quirinale. Enrico Letta, intervistato alla festa del Foglio, ragiona con noi a tutto campo. Parla di futuro, parla di Draghi, parla di Tim, parla di innovazione, ma prima di tutto parte da lì, da una parola a cui il segretario del Pd è affezionato: il campo.
Facciamo notare a Enrico Letta che nella storia della sinistra ne abbiamo visti tanti. Abbiamo visto cresce Querce, ai tempi dei Ds. Abbiamo visto spuntare Margherite, ai tempi di Francesco Rutelli. Abbiamo visto spuntare Ulivi, ai tempi di Romano Prodi. Abbiamo visto spuntare cespugli, chissà quante volte, e non c’è stata stagione della sinistra che non sia stata accompagnata da una sua appendice botanica. E oggi?
“Oggi non saprei. Anche perché per adesso io sono alla semina, e sono al campo largo… quindi siamo ancora al campo. Prima di vedere che cosa può crescere dobbiamo aspettare. Io ci credo in questa cosa del campo largo, credo che sia importante”.
Il campo, d’accordo. Se proprio si vuole parlare di semina, l’Italia, facciamo notare a Letta, oggi sta cercando di seminare qualcosa per il futuro e quel futuro è legato inevitabilmente a questo acronimo complicatissimo che è Pnrr. I sindaci del Pd, facciamo notare a Letta, da settimane manifestano preoccupazione per l’attuazione del Pnrr. Anche il sindaco di Milano, Beppe Sala, sostenuto dal Pd, ha detto, giorni fa al Foglio, di avere “l’impressione che la velocità di marcia, al momento, non sia quella adeguata”. Anche Enrico Letta è preoccupato?
“La mia preoccupazione è legata soprattutto allo scarto tra le aspettative che tutti abbiamo nei confronti del Pnrr e le possibili disillusioni del singolo cittadino dovute alla difficoltà di vedere i fatti realizzarsi concretamente. Credo che abbiamo tutti esagerato nelle aspettative, oggettivamente, ma per un motivo molto semplice: la vera forza del Pnrr sta nel rilancio in Italia degli investimenti e gli investimenti per definizione sono qualcosa che hanno un effetto di medio e lungo termine, ed è evidente che non si vede immediatamente il risultato. Si dirà: ma perché è così importante fare gli investimenti? Per un motivo molto semplice: la precedente crisi, dal 2008 al 2011, è stata una crisi che ha colpito l’Italia più di altri paesi e il nostro paese per via delle risposte europee sbagliate in quel momento, cioè dell’austerità, ha dovuto come altri paesi del sud Europa usare i soldi degli investimenti per la spesa corrente, perché bisognava dare risposte ai bisogni immediati. Il decennio che abbiamo alle spalle è un decennio in cui si è asciugata la spesa per investimenti e questo ha creato quel paese asfittico, dal punto di vista della crescita, che conosciamo. La ripartenza degli investimenti è fondamentale. Il problema è che tutti noi abbiamo raccontato che il Pnrr aveva effetti immediati sulla vita delle persone, e quando oggi si va a costruire il Pnrr per quello che è, le cose sono diverse. Ecco perché credo che l’appello dei sindaci, compreso quello di Dario Nardella, l’appello dei presidenti di Regione è secondo me giustificato. Ma tutti noi, mi sento di poter dire, dobbiamo dare una frustata alla narrazione del Pnrr, riportarla sul tema della crescita degli investimenti di medio e lungo periodo”.
Ci sono investimenti cruciali che riguardano il pubblico e ci sono anche investimenti cruciali che riguardano il privato. In questo momento, mentre parliamo, è in corso un’operazione enorme, una proposta di offerta per un gigante italiano che si chiama Tim che arriva da un fondo americano di nome Kkr. Le chiediamo, segretario: è un buon segno che l’Italia sia passata dalla stagione dei capitani coraggiosi a quella dei capitali coraggiosi? E’ preoccupato dal fatto che vi siano investitori stranieri su Tim? E quali sono i paletti, che in un’operazione del genere, deve fissare il governo sul terreno da gioco?
“E’ evidente che, con Tim, stiamo parlando di un settore strategico. E ci sono tante caratteristiche che fanno pensare che non sia sufficiente un approccio da spettatore da parte del governo. E’ importante che l’esecutivo vigili, come peraltro già ha detto che avrebbe fatto, sulle questioni strategiche. Io mi sento assolutamente tranquillo del fatto che ci siano persone come Draghi e del fatto che nella compagine dei ministri ci sia uno come Vittorio Colao, che mi sembra la persona più adatta per avere contezza di tutti gli aspetti di questa vicenda delicata. Domattina (ieri, ndr) incontrerò i sindacati, perché credo che ci sia una preoccupazione sull’occupazione che va messa al centro dell’attenzione. Finora si è parlato di elementi strategici, però attenzione: ci sono decine di migliaia di lavoratori italiani che sono lì ed è fondamentale che questa attenzione ci sia. La preoccupazione per spacchettamenti e spezzatini c’è e voglio rilanciarla da qui. Lei parlava di stranieri: sì c’è una preoccupazione per una presenza di stranieri rispetto a un asset così strategico a tutto tondo. Però, aggiungo, non è stata molto citata questa cosa, e io mi sento di farlo anche perché è cambiato qualcosa negli ultimi mesi per quello che riguarda Vivendi, un grande gruppo, fatto di grandi professionisti. Il fatto nuovo è questo: il proprietario di Vivendi è praticamente sceso in campo. Saprei bene come dirlo in francese, ma insomma in italiano direi che è sceso in campo nel senso che oggi in Francia non è un finanziere o un uomo d’affari come gli altri: è diventato il principale protagonista della scesa in campo di Éric Zemmour , cioè di colui che sta sconvolgendo la politica francese su posizioni – mi lasci dire – particolarmente inquietanti. Quello che mi sentirei di aggiungere a tutto il disegno è anche una domanda ai francesi di Vivendi: se non considerano – e come ci convivono – questo conflitto di interessi con la politica al rovescio che si trovano ad avere. Da parte italiana io credo che un punto di domanda su questo elemento ci voglia, per cercare di capire cosa vuole dall’Italia, che cosa pensa dell’Italia e che gioco gioca in Italia Bolloré, che scende in campo in politica. Il ruolo che ha la sua televisione è praticamente lo stesso che, negli Stati Uniti, ha Fox News con Trump”.
Restiamo un attimo alla Francia e poi passiamo alla Germania per un’altra questione. Negli ultimi giorni abbiamo assistito a un evento importante, il Trattato del Quirinale. Possiamo dire che è la chiusura di un cerchio il fatto di avere due partiti populisti o post populisti come la Lega e il Movimento 5 stelle che hanno accettato nel giro di pochi mesi di dire sì al Pnrr e al Recovery e sì a un trattato che va contro il nazionalismo e va a favore dell’integrazione, della solidarietà, e quindi anche delle sovranità europea?
“Visto con gli occhi del Trattato del Quirinale, il 2018 sembra veramente lontano un secolo. Mi sento di dire che il posizionamento dell’Italia nel 2018, nella seconda parte del 2018, è stato un posizionamento che oggi con il Trattato del Quirinale e tutto quello che ci sta attorno viene definitivamente messo in soffitta. Questo è un fatto molto positivo, è il segno che le nostre istituzioni sono molto forti e sono anche in grado di spingere a modificare, a ragionare, a rendersi conto che ci sono alcuni assi portanti del posizionamento dell’Italia – quello europeo, quello atlantico e aggiungo anche un rapporto strategico con la Francia – che sono più importanti di qualunque contingenza. Con la Francia non è che ci siamo inventati oggi un asse particolare. Ricordiamoci sempre che Draghi è andato a presiedere la Banca centrale europea perché c’è stato un asse fra tre governi in quel passaggio chiave: quello francese, quello italiano ovviamente e quello spagnolo che rispetto alla scelta tra il governatore della Banca centrale tedesca dell’epoca (Axel Weber) e quello della Banca centrale italiana scelsero quello italiano. Quello fu un passaggio decisivo. Secondo me c’è una grande soddisfazione nel verificare la forza delle nostre istituzioni e il fatto che quei due grandi assi di europeismo e di atlantismo vanno oltre gli aspetti contingenti dello scontro politico. Mi sentirei di dire che sono scritti entrambi nella Costituzione repubblicana, e quegli assi (europeismo e atlantismo) alla fine sono oggi scritti anche nel Dna del popolo italiano e dei cittadini e degli elettori italiani, tanto che oggi attorno a quegli assi io credo che l’Italia sia assolutamente centrale in Europa: il Trattato del Quirinale ne è la dimostrazione. Avendo io vissuto in Francia negli anni 2018 e 2019, nei quali sembrava che uno come me che lavorava per un’istituzione francese fosse un traditore della patria nazionale, perché tale era il messaggio che ogni tanto mi veniva recapitato, posso ben dire che tre anni dopo trovarsi in una condizione nella quale invece questa integrazione tra i due paesi è un’interrogazione potente, forte, con le parole che hanno detto Macron e Draghi l’altro giorno, è una grande soddisfazione, un grande risultato per il paese”.
Dal Trattato del Quirinale al trattato sul Quirinale. Nei prossimi giorni, nelle prossime settimane, si dovrà in qualche modo scrivere un accordo informale su quello che sarà il destino della presidenza della Repubblica. Lei avrebbe qualcosa in contrario a immaginare Draghi come presidente della Repubblica?
“Le ripeto quello che ho già detto in questi giorni. So benissimo che il gioco del Quirinale è il gioco che appassiona tutti, che appassiona il Transatlantico, la politica, i media, i giornali. Però mi sento di dire due cose: la prima è che bisogna evitare di scaricare tutte le tossine del gioco del Quirinale sull’attuale agenda politica, che mi sembra che ne abbia di argomenti molto delicati sui quali discutere giorno per giorno (a partire dalla gestione della pandemia e da come evitare errori sul Pnrr, oltre alla legge di Bilancio). Argomenti per i quali c’è bisogno di unità; inoltre, io non ho mai visto un presidente della Repubblica eletto due mesi prima del dovuto. Io ho sempre visto, per quella che è la mia esperienza, presidenti della Repubblica la cui scelta alla fine è andata a maturazione nelle ultime due settimane prima del voto che poi li ha concretamente scelti. Quella moratoria che ho chiesto due mesi fa la continuo a osservare. Penso che sia utile per tutti. Mi sento di dire solo una cosa su questo: continuo a ritenere che il presidente della Repubblica debba essere sempre eletto con una larga maggioranza e un largo sostegno perché è il capo dello stato. E lo stesso fatto che la Costituzione indichi i primi tre voti con quella così larga maggioranza è una chiara indicazione dei padri costituenti in questo senso; i sette anni sono un’altra indicazione dei padri costituenti, a maggior ragione questa volta. Le dico la cosa in modo molto semplice: siamo dentro una situazione eccezionale con una maggioranza eccezionale ed eccezionalmente larga. Sarebbe incredibilmente contraddittorio, con tutto quello che abbiamo fatto e stiamo facendo, se la maggioranza che sostiene il governo Draghi fosse più piccola della maggioranza che elegge il prossimo presidente della Repubblica. Non credo che ci si possa permettere questo”.
Questo, oltre che un auspicio, è anche un metodo che lei spera che venga applicato?
“Credo che sia giusto sempre, lo è giusto a maggior ragione in questa situazione di emergenza nazionale, che tale rimane. E, aggiungo, è giusto a maggior ragione in questo Parlamento: un Parlamento che più frammentato non può essere”.
Un tema interessante emerso in questi giorni riguarda un altro paese europeo, la Germania. In Germania il nuovo cancelliere Scholz ha inserito nella sua agenda di governo il tema della legalizzazione delle droghe leggere. Che cosa ne pensa Enrico Letta?
“C’è un referendum che ci aspetta fra qualche tempo, c’è una discussione cominciata in Parlamento che in parte si è fermata: noi stiamo cercando di portarla avanti. Io ho una mia idea, ma il mio obiettivo e credo anche il mio dovere, in questo momento, è quello di aprire una discussione, un dibattito che abbiamo già avviato nel Pd per arrivare a una posizione comune di tutto il partito in vista del referendum. Luigi Manconi mi ha rivolto un appello in questo senso. Rispondo a lui e rispondo a lei dicendo questo: il mio obiettivo è quello di portare il Partito democratico a una posizione comune su tutta questa vicenda perché è una vicenda complessa in cui sono assolutamente legittime anche posizioni diverse. Useremo il metodo delle agorà, lo abbiamo già cominciato a usare e voglio che su questa vicenda ne venga esteso l’utilizzo per arrivare a prendere questa posizione comune. Avverrà prossimamente, quindi non c’è nulla da spaventarsi. Aggiungo anche che un grande partito fa così. E penso che sia comprensibile che chi guida questo partito sia rispettoso delle diverse sensibilità che ci sono e cerchi di fare di tutto perché si arrivi a questa posizione comune, a prescindere dalla posizione che ha in cuor suo”.
Luigi Di Maio, ministro degli Esteri, alla Festa del Foglio ha parlato di alcuni errori commessi da lui stesso nel passato, e sono tanti, anche lui l’ha ammesso. C’è un tema che forse potrebbe essere individuato come un suo errore ma glielo pongo in maniera dubitativa. Nel 2014, quando lei era presidente del Consiglio, scelse con una maggioranza ampia di abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Oggi persino il Movimento 5 stelle, seppure in una forma complicata da decifrare, dice sì al 2 per mille. Sono passati sette anni. Crede che sia stata una scelta giusta? La rifarebbe oggi quella scelta?
“Grazie della domanda: mi consente di ritornare su una questione in merito alla quale secondo me non c’è molta chiarezza, per un motivo molto semplice: noi non abbiamo abolito il finanziamento pubblico dei partiti. Il 2 per mille è finanziamento pubblico dei partiti perché il 2 per mille sono risorse pubbliche che vengono dal fisco, ma sono risorse dello stato che vanno ai partiti politici. Quindi la scelta che facemmo allora non era una scelta di eliminazione del finanziamento pubblico dei partiti, della politica, cosa sulla quale non sarei stato d’accordo. La scelta di allora fu la scelta di sostituire la modalità: non più un’erogazione da parte delle Camere nei confronti dei gruppi parlamentari, dei partiti, bensì una scelta dei cittadini che, attraverso la dichiarazione dei redditi, danno. Dopo di che, quello doveva essere il primo tassello di un complesso di riforme che riguardassero il finanziamento della politica. Ci si è fermati a quello, si è eliminato tutto il resto e oggi oggettivamente c’è un problema. Io sono perché si riapra la discussione su questo tema: è giusto che ci sia il finanziamento pubblico ai partiti, il 2 per mille, secondo me è il metodo giusto, ma si trovi il modo di migliorare le cose. Tra l’altro, io mi sento anche di usare questa sede, e vi ringrazio molto per l’invito, anche per fare un appello: il Parlamento e tutti noi vogliamo usare questa parte finale della legislatura. Non vogliamo andare a votare in questo momento di pandemia perché vogliamo che il Parlamento faccia delle cose. Secondo me, vista anche una maggioranza così larga, è l’occasione per mettere mano ad alcune riforme istituzionali. Il completamento del disegno di riforma del finanziamento pubblico è tra queste, ma ne aggiungo una seconda alla quale io tengo moltissimo: una riforma dei regolamenti parlamentari, pronta in Parlamento, che limiti il trasformismo parlamentare. Non è possibile che il gruppo misto sia il quarto gruppo del Parlamento: è il segno che il passaggio da un campo all’altro, il cambio di casacca, è diventato quasi la regola. Io non ce l’ho col gruppo misto in quanto tale o con i suoi attuali componenti, dico semplicemente una cosa: fa parte di un’esigenza di sistema, quella di limitare il trasformismo parlamentare. Ci sono una serie di norme e di proposte che sono lì pronte, l’appello che io faccio a tutti i leader politici in questo momento è: approfittiamo di questo momento e portiamo a casa questa riforma”.
Segretario, ma il centrosinistra di oggi fino a dove arriva? Da una parte è abbastanza chiaro che a sinistra è allargato a Leu e arriva al Movimento 5 stelle, ma in questa fase, quando ci si avvicina al centro, non si capisce bene qual è il confine. Detto in modo brutale: il partito di Carlo Calenda e quello di Matteo Renzi fanno parte della semina del suo campo largo? Sì oppure no?
“Io vorrei dire perché penso al campo largo. Siccome sono una persona che ha fatto politica per molto tempo, poi non l’ha fatta più e infine è tornata a farla, mi sono reso conto e mi rendo conto che c’è bisogno di semplicità e chiarezza. La semplicità e la chiarezza per me oggi vogliono dire questo: in Italia, secondo i sondaggi, il 40 per cento degli elettori indica che è a favore di due partiti, Fratelli d’Italia e la Lega, che non soltanto hanno scelto in Italia un posizionamento che conosciamo tutti, anche su questioni molto complesse della vita di ogni giorno, ma hanno scelto in Europa di essere protagonisti della costruzione di un altro campo che è il campo del sovranismo anti-europeo. Quella parte politica è rappresentata da quei due partiti e da mesi, da anni è al 40 per cento: nelle elezioni del 2019 il 34 per cento era di Salvini e il 6 per cento della Meloni, oggi nei sondaggi sono 20 a 20. Ora, il tema è molto semplice: noi ci stiamo avvicinando alle elezioni. Le elezioni sono fra un anno e mezzo. Io credo che la responsabilità che ognuno di noi ha sulle sue spalle non è soltanto quella di prendere un 10 per cento in più. Lei pensa che io, tornato da quello che facevo, presa la leadership del Pd, sarei contento di me stesso se il Partito democratico alle elezioni prendesse un 10 per cento in più di quello che ha preso con Renzi leader, e nello stesso tempo Salvini e Meloni diventassero la guida del nostro paese? Il tema di fondo è chiarissimo: noi abbiamo la stessa responsabilità, ognuno di noi la ha, io la sento sulle mie spalle, ma visto che è qui davanti a me Carlo Calenda, al quale mi lega anche un’antica e presente amicizia, voglio dirgli che anche lui ha la stessa responsabilità. Il problema non è per ognuno di noi prendere il 2 per cento in più o battere il rivale o superare qualcosa. Il problema è costruire un qualcosa che nel nostro paese sia vincente e riesca a governare rispetto a quel 40 per cento che, se non facciamo niente, guiderà l’Italia dalle elezioni del 2023 in poi. Il mio compito oggi è soprattutto quello di provare a fare da collante, da perno, da guida di questo percorso per essere in grado di far sì che questa alternativa ci sia. E dico che questo passa attraverso scelte europee molto nette e molto chiare. In questo momento scelte europee vuol dire che tutti i leader europei, e anche il nostro paese, devono essere molto netti e forti contro quello che la Polonia e l’Ungheria stanno facendo. Segnalo la Polonia perché la scelta polacca secondo me è una scelta pericolosissima di contrasto strategico all’idea di costruzione europea. Ecco perché attorno a questo noi dobbiamo lavorare e attorno a questo io continuo a lavorare con un’idea: che il campo largo debba essere largo e lo si debba costruire ovviamente con chi vuole stare in questa logica e con chi assume questa stessa idea. Io credo che nessuno di noi avrà la possibilità di raccontarsi come qualcuno che ha cambiato in positivo la storia del nostro paese se avrà preso semplicemente un voto in più, consentendo però a Salvini e Meloni di vincere”.