L'analisi
La clessidra di Draghi. Così le scadenze del Pnrr incrociano quelle del Quirinale
Il ddl Concorrenza insabbiato da un mese tra Palazzo Chigi e il Mef. La revisione del codice dei contratti pubblici, impantanato al Senato, slitta a febbraio prossimo. Il primo semestre del 2022 sarà decisivo per il Recovery. E intanto sulla legge di Bilancio incombe di nuovo la grana delle concessioni balneari
Il terrore è durato solo pochi minuti, giusto il tempo di una verifica. “Se è così, la scadenza del Pnrr non potremo mai rispettarla”, hanno sobbalzato i senatori del Pd, contattando anche il ministro Federico D’Incà, prima di comprendere che in realtà l’inghippo stava in una mezza svista da parte del servizio studi della Camera nel suo dossier sul monitoraggio: ché la scadenza prossima relativa alla modifica codice dei contratti pubblici non è questo dicembre, ma a giugno prossimo. Sollievo solo apparente, però, perché in effetti anche per allora nulla sarà scontato, nel varo del provvedimento. Né il governo può al momento prendersela con la lentezza dei parlamentari, visto il mistero buffo sul ddl Concorrenza.
Che a distanza di ormai un mese da quel 4 novembre in cui è stato approvato dal Cdm, vaga ancora tra Palazzo Chigi e Via XX Settembre. Lo staff di Mario Draghi lo ha infatti tenuto nel sancta sanctorum del governo quasi tre settimane, ben oltre il margine che abitualmente gli uffici del premier si concedono per eventuali limature. Poi, qualche giorno fa, lo hanno finalmente inviato al Mef, dove il provvedimento attende ancora la bollinatura della Ragioneria. Certo, s’è dovuto sciogliere il nodo relativo alle concessioni balneari, dopo la pubblicazione della sentenza del Consiglio di stato. E la diplomazia del premier non è rimasta immobile, se è vero che tra gli emendamenti presentati alla legge di Bilancio da quel M5s che dieci giorni fa ha inviato una sua delegazione a discutere del tema con Francesco Giavazzi, ne è spuntato uno che ricalca assai da vicino il disegno che il consigliere economico del premier aveva in animo di inserire nella prima bozza del Concorrenza. La proposta, a prima firma Mario Turco, visconte grillino, prevede che entro sei mesi il Mit pubblichi una mappatura completa di tutte le concessioni balneari, con tanto di “indicazione dell’eventuale prezzo di subentro”, tenendo conto dei “tempi tecnici affinché le amministrazioni predispongano le procedure di gara richieste” dalla Commissione europea, che da anni ci sanziona con procedure d’infrazione, così da arrivare alle nuove assegnazioni entro l’inizio del 2024. Solo che un analogo censimento, sia pure in forma più primordiale, era previsto anche nel ddl Concorrenza. “E dopo la legge di Bilancio varata in Cdm e stravolta in cabina di regia, ora non accetteremmo altre manovre nell’ombra”, sbuffano i leghisti, che sulla Bolkestein recitano ancora la parte di chi è contrario.
Il che dimostra come l’esercizio dell’autorevolezza da parte di Draghi, se non imposto in modo intransigente, rischia d’impantanarsi nella fisiologica dialettica di una maggioranza trasversale. E così un disegno di legge che era stato annunciato per luglio, poi rinviato a settembre e quindi a ottobre, è stato approvato solo a novembre proprio per cercare di far metabolizzare i malumori dei vari partiti. Che però ora, senza un coordinamento politico reale, senza una camera di compensazione tra l’esecutivo e il Transatlantico, si ritroveranno a doversi confrontare di nuovo sugli stessi temi accantonati; e la prospettiva di nuove baruffe politiche induce il governo alla lentezza. Per cui il ddl verrà incardinato di fatto a gennaio, e nel giro di tre mesi dovrà essere approvato da entrambe le Camere, cosicché il governo possa produrre tutti i decreti attuativi pretesi da Bruxelles entro il 2022.
E quanto non sia affatto un percorso scontato, lo dimostra l’iter non proprio sincopato del disegno di legge delega sui contratti pubblici. Che, licenziato dal governo il 21 luglio scorso, è stato assegnato alla commissione Trasporti del Senato che ne ha iniziato la discussione il 7 settembre, per decidere il 24 novembre che il termine ultimo per la presentazione degli emendamenti scadrà il 9 dicembre, salvo trovarsi con un Senato già impantanato nella Finanziaria per cui, se tutto andrà bene, l’Aula di Palazzo Madama licenzierà il testo a febbraio, dopo che si sarà archiviata anche la pratica del Quirinale. Sempre che gli appelli alla risolutezza lanciati nei giorni scorsi dal dem Salvatore Margiotta e dall’azzurro Massimo Mallegni (“Meglio una delega snella e condivisa”) non s’infrangano sulla rediviva intransigenza grillina espressa dal relatore Andrea Cioffi, secondo cui le riserve espresse dall’Anticorruzione sul testo vanno accolte con massima cura. Il tutto coi deputati che hanno già fatto sapere che quando il testo arriverà a Montecitorio, non varrà il principio del monocameralismo acquisito. E se davvero lo modificassero, a quel punto una terza lettura al Senato riuscirebbe a fatica a concludersi entro giugno 2022, che è il termine fissato nel Pnrr. E senza mettere in conto, peraltro, le convulsioni che seguirebbero al cambio della guardia a Palazzo Chigi e alla ricerca di un nuovo governo. O, peggio, di fronte allo scenario di nuove elezioni.
L'editoriale dell'elefantino