L'editoriale

L'arma della pazienza contro le isterie della stagione pandemica

Claudio Cerasa

È necessaria nella vita di tutti i giorni e all’insorgere di ogni nuova paura. È stata utile in politica. E nell’idea di saper ascoltare e dialogare contiene anche l’essenza di ciò che significa democrazia

Funziona tutto così, ormai da quasi due anni. Prendi un aereo e devi aspettare: ci sono i controlli, il green pass, la temperatura da misurare, le mani da igienizzare. Vai in una macelleria, vai in un negozio, vai in un panificio e devi aspettare: ci sono i controlli, ovviamente, ci può essere la fila e può capitare che il tuo ingresso sia ritardato a causa del numero eccessivo di persone che si trovano in quel negozio. E poi, ovviamente, entri in contatto con un positivo e, neanche a dirlo, devi aspettare: devi aspettare il risultato del test molecolare, devi aspettare di sapere dalla Asl come muoverti e devi aspettare che trascorrano molto lentamente i giorni della tua quarantena. E poi, ancora: cerchi un muratore e devi aspettare (ah, il bonus facciate); cerchi un falegname e devi aspettare (ah, il bonus ristrutturazione); cerchi una materia prima e devi aspettare (ah, la supply chain); incontri un No vax e devi avere pazienza (ah, la tolleranza).

 

Ecco. Se fosse necessario individuare la parola più importante di questo 2021 quella parola coinciderebbe certamente con uno stato d’animo che, nell’anno del post emergenza pandemica ha cambiato le nostre vite non meno di quanto ce le abbia cambiate il Covid: la pazienza. E’ vero. Il mondo, come ha scritto qualche settimana fa l’Economist, è sull’orlo di una rivoluzione in tempo reale nell’economia: grandi aziende come Amazon utilizzano sempre di più dati istantanei per monitorare le consegne dei generi alimentari, i pagamenti in tempo reale nel 2020 sono cresciuti del 41 per cento secondo McKinsey, le informazioni viaggiano sempre di più alla velocità della luce e il mondo pre pandemico è stato in fondo abituato alla cultura dell’impazienza (pensate solo alla reazione dei nostri figli per un acquisto che non arriva a casa il giorno stesso, per un buffering di troppo su Netflix, per una connessione che non funziona come dovrebbe sui tablet o, peggio mi sento, per essere costretti a interrompere un film a causa della presenza di una pubblicità). Eppure, accanto alla rivoluzione in tempo reale dell’economia, ce n’è un’altra che ci è stata imposta dai tempi lunghi della pandemia e quella rivoluzione coincide con la nostra parola dell’anno: pazienza. Non si può affrontare la pandemia senza avere pazienza. Non si può giudicare una variante senza avere pazienza.

 

Non si può governare un’ondata senza avere pazienza. Non si può approvare un vaccino senza avere pazienza. Nel mondo dell’informazione, quando si parla di pandemia, la cultura dell’impazienza ha portato un numero considerevole di volte molti osservatori a creare panico, ad alimentare paure, a fomentare allarmi, e da questo punto di vista il caso della variante Omicron, di cui ancora non sappiamo abbastanza per poterci dire né sollevati né preoccupati, è stato un caso semplicemente esemplare, e i giornali che hanno scommesso più sulla P di panico che sulla P di prudenza sono stati molti, a partire da Repubblica che due giorni dopo aver titolato la prima pagina sul “panico Omicron” ha iniziato a bacchettare con alcuni articoli i professionisti del panico. Nella stagione delle grandi emergenze – una stagione durante la quale essere pazienti ha significato per molti qualcosa di più impegnativo che il perseguimento di un semplice stato d’animo – l’avere pazienza è stato una prerogativa vincente delle democrazie (in democrazia ci si vaccina di più rispetto a quanto non ci si vaccini nelle non-democrazie).

 

E la cultura della pazienza (cultura che dovrebbe essere cara a chi abbia a cuore un po’ di cultura cattolica: “Mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità”,  scriveva Pietro in un passaggio della sua Seconda lettera) è stata in qualche modo anche una risposta a una fase di isteria della politica, durante la quale per molto tempo si è cercato di offrire risposte semplici a problemi complessi (tendenza che spesso poi si andava a riflettere sulla necessità da parte della politica di dover offrire agli elettori risposte tarate più sul valore della velocità che sul principio della riflessione). La cultura della pazienza significa tutto questo, ma significa anche altro e nella parola pazienza, nell’idea di saper ascoltare, di saper dialogare, di saper agire non su una base emozionale, c’è anche l’essenza di ciò che significa oggi la parola democrazia. “La nostra democrazia – ha detto Angela Merkel giovedì scorso nel suo discorso di commiato da cancelliera – prospera sulla capacità di esaminare criticamente e correggersi.

 

Vive del costante equilibrio degli interessi e del rispetto reciproco. Vive di solidarietà e fiducia. La nostra democrazia prospera anche sul fatto che laddove l’odio e la violenza sono considerati un mezzo legittimo per affermare i propri interessi, la nostra tolleranza come democratici deve trovare sempre un suo limite”. Pazienza, prudenza, prontezza. Il nostro futuro nella pandemia in fondo passa da qui.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.